Nella lettera ai militanti con cui Renzi cerca di mettere spalle al muro chi dissente sul Jobs Act, l’argomento è sempre il solito: respingiamo il ritorno del “vecchio”, abbiate fiducia in me che sono il “nuovo”. Tradotto in cifre: cari iscritti del Pd, io vi ho portato al 40,8% dei voti, i miei oppositori interni con i loro argomenti logori vi riporterebbero al 25%. Può anche darsi che abbia ragione, per quanto detestabili siano le vanterie demagogiche. Renzi cerca di plasmare un Pd a sua immagine e somiglianza, capace di assumere con naturalezza istanze e linguaggi di destra, per esempio in materia di flessibilità o di giustizia, sottratti a un’opposizione evanescente e subalterna. Renzi è pronto anche a sopportare una piccola emorragia a sinistra, se questo fosse necessario per dare vita al suo “partito della nazione”, ovvero partito pigliatutto che occupa saldamente il centro del sistema politico costringendo gli altri a ruotargli intorno.Con dosi massicce di populismo e trasformismo, Renzi si ripromette di mantenere quota 41% anche nelle elezioni future, a prescindere dagli esiti dell’azione di governo: troverà sempre qualcuno a cui dare la colpa se le sue riforme non danno i benefici promessi.
Il premier dovrebbe ricordare però che il 25 maggio scorso, alle europee, fece il pieno dei voti di sinistra -grazie anche all’operazione ridistributiva degli 80 euro- e non è scontato in futuro il rinnovarsi di questa fedeltà a sinistra. Per esempio il Jobs Act così come ce l’hanno fatto vedere finora è piuttosto un provvedimento che toglie alcuni diritti residuali di certezza del posto di lavoro alla minoranza che ancora li detiene, senza dare per il momento niente di concreto ai precari cui Renzi si rivolge. L’assegno universale per chi perde il lavoro o è senza lavoro, rimane al momento una chimera. Dunque, per restare alla metafora (sbagliata) dell’apartheid, diciamo per assurdo che Renzi toglie ai “bianchi” senza dare ai “neri”. Operazione di efficacia discutibile perfino nei suoi futuri esiti elettorali.