Attenzione, l’articolo 18 non si può cambiare solo per i nuovi assunti

martedì, 23 settembre 2014

Due docenti universitari, il costituzionalista Michele Ainis e l’economista Marco Leonardi, illustrano in due editoriali pubblicati su “Corriere della Sera” e “Europa” di martedì 23 settembre diverse contraddizioni normative rispetto all’emendamento del governo Renzi al Jobs Act. In questo articolato si prevede che la reintegra sul posto di lavoro come tutela dal licenziamento venga sostituita da un indennizzo monetario per i nuovi contratti a tempo indeterminato. Per i rapporti di lavoro precedente, invece, le regole rimarranno uguali. ” Un tentativo di rendere la flessibilità in uscita politicamente più digeribile: se faccio una riforma che abolisce il diritto al reintegro ma la applico solo ai nuovi contratti, gli occupati di oggi sono più tranquilli che le riforme riguarderanno solo i lavoratori di domani. In altre parole salvaguardo i diritti acquisiti” come scrive il professor Leonardi della Statale di Milano su Europa. L’economista dell’Università di Milano rimarca come il progetto del governo non funzioni per due motivi: coerenza politica ed efficacia. La prima è riassumibile nel cosidetto “apartheid” del nostro mercato del lavoro, la divisione tra garantiti e non garantiti. ” Si fa un contratto a tutele crescenti per favorire la stabilità dei giovani, per ridurre il dualismo. Ma applicando le nuove regole solo ai nuovi contratti si rischia di allargare il dualismo: i padri avranno la tutela dell’articolo 18 e i figli no”. Un mercato del lavoro caratterizzato da un crescente dualismo, che potrebbe essere ridotto solo se i nuovi assunti ottenessero successivamente un contratto a tempo indeterminato. La scomparsa del contratto a tempo determinato, rimarca Leonardi, è però praticamente impossibile, perché ” aremmo il primo paese al mondo senza contratti a termine. E poi le aziende non rinuncerebbero mai ai contratti a termine per un contratto che non sanno se funziona”. Leonardi illustra poi il possibile inceppamento del mercato del lavoro che si verificherebbe con il quadro normativo delineato dall’attuale versione del Jobs Act. ” La seconda ragione riguarda la transizione dai contratti coperti dall’articolo 18 ai nuovi contratti senza articolo 18. I nuovi assunti non sono solo i giovani al primo lavoro: i nuovi assunti sono anche tutti coloro che cambiano volontariamente contratto di lavoro nella stessa azienda o cambiano azienda per una qualsiasi ragione. Come fai a convincere un lavoratore che è coperto dall’articolo 18 a firmare un nuovo contratto senza articolo 18? Certo, molti lo faranno perché non temono il licenziamento, ma altrettanti non ne vorranno sapere nulla. In Italia ci sono 10 milioni di cambi di contratto volontari all’anno, facciamo pure conto che quelli in aziende sopra i 15 dipendenti siano un terzo o anche un quarto del totale. Si rischia di inceppare il turnover. E il turnover volontario dei lavoratori da un posto all’altro è l’olio dell’economia italiana dove il licenziamento individuale è relativamente raro e tutta la riallocazione si fa volontariamente”. Per l’economista con questa disciplina si potrebbero verificare molti contenziosi legali all’interno delle aziende “ove convivono due tipi di lavoratori, uno con un contratto di nuovo tipo e uno con un contratto vecchio coperto dall’articolo 18. Il primo lavoratore viene licenziato oppure gli viene ridotto lo stipendio (con la minaccia che può essere sempre licenziato), mentre il secondo è immune da qualunque rischio. Si apre la porta alla cause per discriminazione”. La discriminazione è il punto principale che ispira le riflessioni del costituzionalista Michele Ainis, editorialista del “Corriere della Sera” su materie di diritto. Il docente rimarca come il Jobs Act sia una riforma curiosa, visto che taglia a metà i lavoratori a tempo indeterminato di un’azienda: da una parte con un certo patrimonio di diritti, dall’altra senza. Una contraddizione rilevante considerando la natura costituzionale dello Statuto dei Lavoratori del 1970. ” Non si può applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti”. La discriminazione anagrafica è particolarmente criticata da Michele Ainis, che rimarca come in realtà contrasti con la direttiva europea  2000/78/CE del 27 novembre 2000. Questa norma comunicataria  stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (cd. Direttiva “quadro”). Tale Direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216. Il legislatore comunitario ha lasciato spazi per la discriminazione anagrafica, che però sono stati sempre più vincolati dalla giurisprudenza comunitaria stato alla verifica della necessaria presenza, nelle scelte di azione pubblica che comportano un trattamento diseguale, della coerenza tra obiettivi perseguiti e mezzi adoperati per il perseguimento degli stessi. Sia Ainis che Leonardi rimarcano come il diritto alla reintegra dovrebbe essere abolito per tutti i contratti in essere, suggerendo un diverso indennizzo monetario a seconda degli anni di lavoro svolto. “La salvaguardia dei diritti acquisiti che implica l’applicazione delle nuove regole solo ai nuovi assunti, non solo non è giusta, ma non è neanche praticamente fattibile. Per compensare chi perde la protezione dell’articolo 18 si può invece pensare ad un’indennità maggiore di quella che si concede ai nuovi assunti”, scrive in conclusione il prof. Marco Leonardi, mentre l’editorialista del “Corriere della Sera” evidenzia come ” i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi”.

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