Simcha Rotem, diario di un combattente del ghetto di Varsavia

lunedì, 29 settembre 2014

Questa è l’introduzione che ho scritto per il libro di Simcha Rotem “La Shoah in me” pubblicato da Sandro Teti editore.
Simcha in ebraico è un forte sostantivo femminile che significa gioia, esultanza, divenuto nome proprio di persona di genere maschile. Suonerà forse beffardo ai lettori di questa straordinaria testimonianza, ma ben si addice a simboleggiare l’energia vitale di Simcha Rotem, l’indomito protagonista della rivolta del ghetto di Varsavia, uno degli episodi più eroici e tragici della storia. Lui l’ha scritta malvolentieri, non è uomo amante delle vanterie. La prima stesura gli venne ordinata da Yitzhak Zuckerman, il suo comandante Antek, quando appena aveva compiuto vent’anni e militava nello Zob, l’Organizzazione Ebraica di Combattimento, formazione sgangherata già in origine e ormai ridotta a poche decine di sopravvissuti all’ecatombe. Era la primavera del 1944, vivevano rintanati sotto l’occupazione nazista. Decenni più tardi, nel 1981, furono i suoi compagni del kibbutz Lohamei Hagetaot in Israele a forzarlo, affinché portasse a termine l’opera. Ne valeva davvero la pena.
Il diario della gioventù di Simcha Rotem illustra magistralmente l’etimologia del suo nome: cioè il bisogno di nominare nel segno femminile della gioia la nascita di un figlio, quand’anche predestinato alla resistenza di un popolo perseguitato.
Ci sono due neonati, in questo libro. Il primo Simcha Rotem lo incontra che vagisce tra le braccia di una madre morta, in una catasta di cadaveri, mentre si aggira in mezzo alle rovine fumanti del ghetto di Varsavia nella primavera 1943. Il giovane combattente si ferma un attimo, ma poi riprende a camminare. Lascia lì quel bambino. Cos’altro avrebbe potuto fare?
Il secondo neonato vedrà invece la luce sano e robusto durante l’insurrezione di Varsavia nell’agosto 1944, quando il ghetto era stato ormai liquidato da un anno. Su richiesta dei partigiani, nella foresta di Wyszkòw, un medico era intervenuto maldestramente, convinto di aver posto termine a una gravidanza impossibile. E invece sia la madre sia il figlio sopravvivranno alla guerra in cui era già rimasto ucciso Gavrish Fryszdorf, l’ignaro padre di quel bambino.
Il destino ha voluto che Simcha fosse provvisto di connotati fisiognomici cristiani, piuttosto che ebraici. Ma egli non ne approfittò per mettersi in salvo. Al contrario, quel requisito di minor riconoscibilità gli valse l’incarico continuativo di missioni spericolate nelle quali gli toccò muoversi in mezzo a una popolazione spesso ostile e perfino dialogare con agenti della Gestapo.
Il coraggio aveva dovuto darselo da sé, fin da quando, adolescente, nei giorni successivi all’invasione tedesca del settembre 1939, era rimasto sepolto fra le macerie della sua casa bombardata, trascinandosene fuori gravemente ferito. Poi era sopraggiunta la militanza clandestina, la dimestichezza con armi incomparabili alla potenza bellica del nemico, la visione diretta dello sterminio, un’eterna sequenza di fughe e inseguimenti nei cunicoli delle fogne, la mappa dei tombini e dei nascondigli di muratura.
Proverà l’ebbrezza di combattere a viso aperto sparando addosso ai nazisti durante gli incredibili dieci giorni fra l’aprile e il maggio 1943 in cui l’esercito più potente del mondo perse il controllo del ghetto, dopo che la maggioranza dei suoi abitanti era già finita nelle camere a gas di Treblinka. I ragazzi e le ragazze dello Zob non avevano speranza di vittoria ma bastava loro esprimere col linguaggio delle armi il proprio diritto calpestato alla dignità. Come ha avuto modo di dire Marek Edelman, il vicecomandante dello Zob, visto che il mondo misurava nel combattimento il valore dei diversi popoli, anche noi abbiamo dovuto sparare. Per la verità il mondo fece di tutto per non ascoltare quel grido disperato. Il rappresentante del Bund (partito socialista ebraico) nel governo polacco in esilio a Londra, scelse di suicidarsi per denunciare l’indifferenza da cui erano circondati i combattenti del ghetto. Loro non erano certo in grado di calcolare le ripercussioni della loro azione di eroismo puro e disinteressato. Anzi, Simcha Rotem qui riconosce che l’azione dello Zob non era benvoluta neanche fra i superstiti della popolazione ebraica del ghetto, terrorizzata e depressa nella rassegnazione. Ci offre resoconti crudi, non sempre edificanti, di una lotta sviluppata su più fronti, implicando l’espropriazione di beni degli ebrei benestanti e la punizione dei collaborazionisti.
Ben si comprende allora la fantasia che lo assale nel mezzo di quell’inferno, spartiacque esistenziale di chiunque gli sia sopravvissuto. Immaginiamoci la scena, il ghetto completamente raso al suolo, il fumo degli incendi, morti dappertutto. “All’improvviso fui avvolto da una calma irreale, mi sentivo così bene in mezzo alle rovine del ghetto, tra i cadaveri di quelli che mi erano stati cari, l’unica cosa che volevo era rimanere fino all’alba, per aspettare l’arrivo dei tedeschi, ucciderne qualcuno e poi morire. Come in un film, i ricordi della mia vita passarono vertiginosamente davanti ai miei occhi, vidi me stesso cadere combattendo, l’ultimo ebreo del ghetto di Varsavia. Mi resi conto di trovarmi al confine tra la lucidità e la pazzia”.
La fantasia di essere l’ultimo ebreo combattente superstite del ghetto di Varsavia è ricorrente. Ha ispirato un’opera potentissima come “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz, a lungo venerata come testimonianza autentica nonostante le smentite dell’autore. Perseguiterà anche gli altri fuggiaschi del Zob che fuoriuscirono come Simcha Rotem nella zona ariana di Varsavia quando ormai tutto era perduto. Dolorose controversie li animarono per tutta la vita circa la possibilità o meno di aspettare qualcun altro, di tornare indietro a raccogliere compagni dispersi. Il dubbio, il senso di colpa. Perfino sentimenti ambivalenti nei confronti di Mordechaj Anielewicz, il giovanissimo comandante dello Zob che aveva perduto la vita l’8 maggio 1943 nel famoso bunker di via Mila 18, ultima roccaforte della resistenza. Davvero aveva scelto di suicidarsi? Poteva essere accettato quel suicidio o viceversa rappresentava una deroga ingiustificabile al combattimento senza quartiere di cui erano tutti chiamati a dare testimonianza?
Simcha Rotem non si addentra in questo dilemma, a differenza di Marek Edelman, l’altro grande testimone sopravvissuto. Sono questioni su cui gli eroi del ghetto si sono dilaniati interiormente, senza mai parlarne volentieri con chi non c’era. Fumando e bevendo, sentendosi fratelli e al tempo stesso bisognosi di coltivare la solitudine del dopo.
Ho avuto il grande onore di conoscere Marek Edelman che, a differenza di Simcha Rotem, in dissenso con i sionisti rimase a vivere in Polonia Sono orgoglioso che i miei figli gli abbiano stretto la mano e abbiano partecipato insieme a lui alla sessantacinquesima commemorazione della rivolta del ghetto, il 19 aprile 2008 a Varsavia. Sempre lontano e distinto dalle cerimonie istituzionali.
Rotem e Edelman, sopravvissuti a Anielewicz, pur nella diversità hanno coltivato per tutta la vita un’amicizia nutrita dallo speciale rispetto che i coraggiosi tributano a chi ha dato loro prova di analogo coraggio. La seconda parte del libro-diario di Simcha Rotem è in questo senso quasi stupefacente. Pare incredibile che quel gruppetto di temerari, mal visti in quanto ebrei perfino dai settori di destra dell’Armia Krajova (l’organizzazione ufficiale della resistenza polacca), possano aver intessuto una rete di protezione clandestina e di combattimento così tenace. Comprendiamo che fin da subito, per merito del loro comandante Antek (Yitzhak Zuckerman) e della sua compagna Tuvia, essi avvertirono il dovere di custodire la testimonianza a futura memoria di quanto avvenuto nel ghetto. Il nostro eroe verrà incaricato di una missione pressoché suicida, nel 1944, nel tentativo di rientrare in possesso dell’archivio del Zob, nascosto dietro a false pareti in un appartamento di via Leszno 18.
Combattere i nazisti sempre in prima linea sarà l’imperativo da cui Simcha Rotem faticherà a desistere anche dopo la fine della guerra, dopo che è rientrato da Lublino a Varsavia liberata con l’appoggio della filosovietica Armia Ludowa. Sperimenterà le diffidenze del nuovo regime e la persistenza del retaggio antisemita che avvelenava la Polonia post-bellica. La ricerca di una nuova patria ebraica, lontano da quelle macerie, viene rivendicata qui come una scelta maturata fin dal principio della resistenza come unica prospettiva augurabile.
La testimonianza di Simcha Rotem suscita ammirazione e gratitudine. Che non vada perduta.

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