Ti colpisce nel profondo “Anime nere” il film di Francesco Munzi sulla ‘ndrangheta che s’irradia nel nostro tessuto sociale e mentale a partire dal suo nucleo d’Aspromonte calabrese. Ma non è solo un film sul crimine, o sul rapporto fra crimine e economia. Insomma non è una riedizione del pur ottimo “Gomorra”. Qui c’è qualcosa di più profondo che turba e fa riflettere, nel rapporto fra i tre fratelli (quello integrato a Milano, il grande spacciatore, il primogenito pastore rimasto al paese), la generazione successiva afflitta da ottusità e miseria culturale, le loro donne imprigionate in una tradizione ormai sfilacciata, i codici del rispetto, la distanza dello Stato, la dimensione soverchiante della bruttezza e del sangue come elemento vitale. Non sono un critico cinematografico e dunque mi limito a constatare che “Anime nere” per me è stato il racconto pieno di verità dolorose di una civilizzazione incompiuta. A tal punto che, nel mentre seguivo quegli uomini in cerca di piacere, potere, vendetta -e l’introiezione profonda dei codici atavici nei loro comportamenti, tale da sconvolgere i nostri parametri su saggezza e bontà d’animo- pensavo anche ai miliziani dell’Isis. Anche loro, anche i tagliagole arruolati in Medio Oriente o fra i loro congiunti emigrati fra noi, sono il portato di una civilizzazione incompiuta. Non sto dicendo che calabresi e arabi sono la stessa cosa. Sto dicendo che abbiamo tutti un problema in comune.