Una apocalisse culturale, ovvero La Mecca contesa tra fede e denaro

giovedì, 2 ottobre 2014

 

 

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”
L’implosione della civiltà musulmana che sta generando ondate di terrore fino a migliaia di chilometri di distanza, ha il suo epicentro nel luogo più sacro, più conteso e forse anche più profanato dell’Islam: la Mecca. Basta consultare un qualsiasi sito internet di prenotazioni alberghiere per constatare come, nella città santa che custodisce la Pietra Nera incastonata nella Kaaba, meta del pellegrinaggio prescritto dal Corano almeno una volta nella vita, sta consumandosi un’apocalisse culturale, frutto dell’incontro-scontro fra tradizione e consumismo, ovvero fra fede autentica e potere del denaro. Demoliti i vicoli medievali che rendevano difficoltoso l’accesso al luogo sacro, l’immobiliare della famiglia Bin Laden l’ha trasformata nel corso degli ultimi vent’anni in emblema della superpotenza saudita, ricoprendola di marmo italiano culminante nei 610 metri d’altezza del Royal Hotel Clock Tower, il secondo grattacielo del mondo, dotato nei suoi 120 piani di suites lussuose affacciate sulla Pietra Nera. Molti pellegrini ne tornano sconcertati, quasi che la culla dell’Islam stesse assumendo le fattezze –sia detto senza offesa- di una vetrina dell’opulenza materiale come Las Vegas.
Questa metamorfosi, già resa evidente dalle nuove metropoli del capitalismo islamico figlie dei petrodollari, come Dubai, è tra le cause scatenanti della controffensiva fondamentalista di cui si fa portatore l’autoproclamato califfo al-Baghdadi.

 

E’ al controllo della Mecca, infine, cioè al miraggio del ripristino di una tradizione violata, che mira l’esercito oscurantista dei tagliagole. Facendo leva sul passaggio storico che da trentacinque anni sconvolge il Medio Oriente: l’Islam percepito come rivoluzione, e non più solo come religione del sovrano.
Tale capovolgimento ha una data simbolica: il 1979. Quello fu l’anno in cui la rivoluzione si avverò come fenomeno di massa nel campo sciita, con la deposizione dello Scià e l’instaurazione di una “repubblica islamica” (fino al 1979, un vero e proprio controsenso). Ma in quello stesso anno, il fatidico 1979, un analogo tentativo rivoluzionario –represso nel sangue- ebbe luogo anche in campo sunnita: l’assalto alla Grande Moschea della Mecca guidato da Juhayman al-Utaybi, con lo scopo di rovesciare il regno corrotto della dinastia saudita.
Quando oggi ci interroghiamo sulla enigmatica doppiezza dei principi del Golfo che investono miliardi di dollari nelle economie occidentali ma al tempo stesso finanziano le milizie jihadiste, stiamo toccando con mano proprio questa loro contraddizione esistenziale: per mantenersi al potere accumulano ricchezza finanziaria, senza rinunciare però al ruolo di custodi dell’ortodossia che strapparono un secolo fa al sultano turco (con la complicità anglo-francese).
Oggi Arabia Saudita, Qatar e Emirati si schierano con Obama nella guerra contro lo Stato Islamico che insidia Bagdad, Damasco, Amman e Beirut, con l’intenzione dichiarata di minacciarli poi direttamente. Ma non smettono di coltivare quella visione reazionaria dell’Islam –il wahhabismo- che li ha portati a finanziare i gruppi terroristi e la propaganda degli imam ostili alla democrazia pluralista.
Sembra incredibile che gli stessi sovrani comprino Valentino e l’Alitalia, il Paris Saint Germain e il Manchester City, per poi schierarsi al fianco dei peggiori nemici della civiltà occidentale. Siamo in presenza di una conseguenza non voluta del predominio della finanza sull’economia globale: la trasformazione di enclaves semi-feudali in centri nevralgici dello squilibrio mondiale.
Milioni di musulmani che, anche in Europa, frequentano moschee “generosamente” pagate dai nostri alleati del Golfo, dove ha prosperato il purismo estremo dei salafiti di matrice wahhabita-saudita, tornano dal pellegrinaggio alla Mecca scandalizzati per la sua trasformazione materialistica. La loro delusione li spinge nelle braccia degli integralisti fino, in taluni casi, all’arruolamento nelle milizie del califfato.
Un saggio di prossima pubblicazione, “L’Islam nudo. Le spoglie di una civiltà nel mercato globale”, opera del professor Lorenzo Declich, descrive efficacemente il cortocircuito incendiario che stiamo vivendo. Gli stessi tagliagole che si presentano nei videomessaggi vestiti all’antica, con tuniche e turbanti neri, lo fanno sapendo di utilizzare codici moderni e occidentali. Spiega Declich: “Il corredo iconografico su cui disegnano la propria immagine di ‘persone del passato’ appartiene più al serbatoio di luoghi comuni occidentali sull’Islam che non all’Islam nella sua dimensione storica”.
Per questo l’evoluzione-involuzione della Mecca riveste un significato cruciale. Fin tanto che la meta dell’Hajj, cioè del pellegrinaggio di ogni buon musulmano, in un luogo avvolto nel mistero e precluso agli infedeli, resterà terreno di contesa fra opposte fazioni reazionarie, sarà difficilissimo prevedere una transizione democratica nei paesi a maggioranza islamica. E fin tanto che l’Islam, nella sua versione sciita così come nella sua versione sunnita, verrà percepito a livello di massa come rivoluzione contrapposta all’occidente, la coalizione anti-Isis guidata dagli Stati Uniti resterà precaria, soggetta a improvvise defezioni.
Nel suo capolavoro, “Il secolo breve”, lo storico Eric Hobsbawm preconizzò che la rivoluzione iraniana avrebbe avuto effetti più dirompenti e duraturi della rivoluzione russa. Stiamo ancora facendoci i conti, trentacinque anni dopo. Un nuovo equilibrio mondiale, oggi difficile anche solo da immaginare, implica una pacificazione post-rivoluzionaria con questa civiltà islamica dilaniata.

I commenti sono chiusi.

I commenti di questo blog sono sotto monitoraggio delle Autorità. Ti preghiamo di mantenere i toni della discussione entro i limiti di buona educazione e netiquette in essere come regole del blog. Inoltre usa con moderazione i seguenti comandi di formattazione testo.