Renzi il trasformista, dalla deregulation del lavoro alla metamorfosi del Pd

martedì, 7 ottobre 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Politica e società tornano a incontrarsi e a scontrarsi oggi a Palazzo Chigi. Renzi si cimenta in un tentativo di rottamazione delle vigenti relazioni sindacali. Rimette tutto in gioco, dalle tutele legislative, ai contratti di lavoro, fino ai minimi salariali. E non a caso delinea in parallelo una metamorfosi politica del Pd. Da partito dei lavoratori a partito della nazione. Da partito degli iscritti a partito degli elettori. Forse addirittura da partito di sinistra a partito trasversale.
La premessa di Renzi, invisa alla Confindustria ma guardata con sospetto anche dai sindacati, è come sempre pop: rimettere in circolo dei soldi grazie al pagamento del Tfr in busta paga dal 2015. Vuole essere di nuovo una manovra ridistributiva in favore dei bassi redditi, come già gli 80 euro; anche se stavolta si tratta di un anticipo, non di un aumento. Rimedio parziale e difensivo, prova di buona volontà in una fase di generalizzato abbassamento delle retribuzioni.
La successiva proposta renziana di un minimo salariale stabilito per legge, in effetti non è altro che un tappeto di sicurezza sottostante alla deregulation dei contratti nazionali di lavoro. Precede cioè l’autorizzazione di deroghe al ribasso nelle trattative aziendali e territoriali. Dubito che lo faccia in streaming, ma oggi Renzi esporrà, di fronte ai sindacati un ragionamento amaro: meglio consentire alle imprese meno produttive di diminuire i salari anche sotto i minimi contrattuali, pur di scongiurare licenziamenti e cassa integrazione.
Gli economisti spiegheranno che le aziende non reggono più il disallineamento fra dinamiche retributive e produttività. I politici indoreranno la pillola spiegando che dove il mercato tira si potrà aumentare la paga. Ma sappiamo tutti benissimo che nella maggioranza dei luoghi di lavoro sarà da mettere in conto uno scivolamento verso il basso, con la motivazione vera o falsa di salvare il posto.
La stessa legge sulla rappresentanza sindacale proposta da Renzi, sembra destinata a fronteggiare –insieme allo strapotere delle burocrazie- anche l’eventualità di contratti aziendali rifiutati da una o più sigle, ma votati a maggioranza.
Non sono affatto convinto che un professionista della politica come Renzi intenda vincolarsi al “modello Marchionne”, cioè a una contrapposizione frontale con la Cgil che resta pur sempre il sindacato più rappresentativo nel paese. Ma, certo, sancire per legge che i contratti nazionali non sono più vincolanti sgombrerebbe il campo dalle sentenze che l’anno scorso diedero ragione alla Fiom e torto alla Fiat.
Se queste sono le verità scomode di una fase recessiva ben lungi dall’essere conclusa –malvolentieri ammesse da un governo specializzatosi nel comunicare per iniezioni di ottimismo forzato- allora è chiaro perché Renzi considera il sindacato un ostacolo, piuttosto che uno strumento di coesione sociale. Approfittare dell’impopolarità del sindacato gli conviene, è un ottimo strumento di propaganda.
Qui diviene centrale il ruolo della politica, e del Pd. A dispetto della sua minoranza interna, Renzi assegna una funzione dirompente al partito di cui è segretario. Un partito che con lui ha già dimostrato la capacità di sconfinare a prescindere dai suoi riferimenti d’origine (sebbene Scalfari ricordi giustamente come il 40,8% conseguito alle europee resti, in cifre assolute, al di sotto dell’elettorato storico del centrosinistra italiano).
In sintesi, per gestire senza esserne travolto questa fase di impoverimento forse inevitabile del lavoro dipendente, Renzi necessita di un partito della nazione piuttosto che di un partito della sinistra. Ovvero di un partito del leader capace di riunire gli italiani contro un nemico comune, da individuarsi nella tecnocrazia europea fautrice dell’austerità. Il Pd degli iscritti e delle primarie non può bastargli in questa operazione –politica a tutto tondo- di deregulation interna ed esterna.
Senza voler dare a questo termine alcun significato morale negativo, Giovanni Orsina definisce tecnicamente “trasformistica” l’operazione completata da Renzi, con diretto riferimento alla conquista del Parlamento del Regno d’Italia riuscita un secolo prima a Giovanni Giolitti. Scrive Orsina che il premier “ha colmato parte del fossato che divide destra da sinistra, preparando il terreno per una grande confluenza al centro” (La Stampa, 18/09/14). Così, profittando anche dell’evanescenza delle opposizioni, si è affermato come leader “inevitabile”.
Con la frettolosa convocazione mattutina di sindacati e imprenditori –un’ora per ciascuno- Renzi accelera la sua rivendicazione del primato della politica. La intende come extrema ratio di fronte alle storture di una società da correggere. Forse gli appare inerte il corpo sociale di fronte a cui si presenta quale unica soluzione possibile, oserei dire come una sorta di difensore dell’Italia ritornata “grande proletaria” (Giovanni Pascoli), bisognosa di riscossa, o quanto meno di consolazione, ma non certo di ulteriori conflitti interni. Se il trasformismo renziano possa rappresentare la chance di un nuovo inizio, sul terreno decisivo dei rapporti di lavoro, è un azzardo che si svelerà ben presto.

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