Con l’enfasi che gli è propria, ieri alla Leopolda ha annunciato, testualmente, “la più grande battaglia culturale degli ultimi 30 anni dentro alla sinistra”. Si riferiva al tema del lavoro e della riforma dei suoi contratti e delle sue tutele (“le tutele devono valere per tutti, questa è la sinistra che vogliamo”).
Ha fatto un bel discorso, Renzi. L’ho ascoltato dal principio alla fine. Grande respiro internazionale, orizzonte progressista e contenporaneo. Ma non pronunciando mai le parole “crisi” e “disoccupazione”, forse per non passar per gufo, il capo del governo ha sorvolato pure sul grande interrogativo: come si crea nuovo lavoro, come si ripartisce meglio il poco lavoro che c’è? L’impressione è che la dimensione del dramma non gli si addica, volendo essere il propugnatore dell’ottimismo. Ma il timore è che questo pensare positivo per cavarsela alla fine riguardi innanzitutto il nucleo della sua politica innovata ma pur sempre intesa come arte del comando. Temerario, Renzi scivola sulla patina fragilissima della crisi distribuendo accuse a chi gli si frapponga, esibendo sintonia con il popolo contro le élites, nella speranza di cavarsela. Almeno lui.