Tra i grattacieli di Erbil cresce il sogno dell’indipendenza curda

giovedì, 13 novembre 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.

ERBIL (Kurdistan iracheno)
La potenza emergente del nazionalismo curdo trasformatosi ormai in Stato di fatto, sulle ceneri dell’Iraq avviato alla dissoluzione, si celebra agli incroci delle larghe e trafficate avenues di Erbil. Qui i profughi in fuga da Kobane e Mosul chiedono l’elemosina sovrastati da megaschermi in cui il Falcon Group pubblicizza con filmati spettacolari la ricchezza delle sue torri avveniristiche chiamate Empire Diamond, alternandole con visioni di fiamme pacifiche delle raffinerie di petrolio. Riesce difficile pensare alla ferocia della guerra, ai miliziani del Califfato insediati a poche decine di chilometri da una metropoli che per lusso e disegno architettonico cresce a vista d’occhio sul modello di Dubai.
Il mondo guarda con ammirata gratitudine ai curdi che frenano l’avanzata dello Stato Islamico, celebra i peshmerga del loro esercito popolare, mitizza le donne soldato che poco più a nord, nel Rojava (il Kurdistan siriano) fronteggiano i tagliagole jihadisti. A Erbil giungono armi e rifornimenti dall’occidente. L’Italia partecipa inviando 280 addestratori militari nell’ambito della coalizione anti-Is.
E’ il capolavoro diplomatico di due leader curdi iracheni -l’ormai anziano Jalal Talabani e il presidente Massoud Barzani- che hanno riempito il vuoto di potere del dopo Saddam Hussein, realizzando in silenzio il sogno proibito dell’indipendenza. Eredi di una tragedia novecentesca, lo smembramento del popolo curdo nel 1923 in quattro Stati diversi (Turchia, Siria, Iran, Iraq), Talabani e Barzani stanno trasformando un nazionalismo dolce e perseguitato in qualcosa di molto diverso, al tempo stesso indispensabile e pericoloso.
In nome della comune fede musulmana, questi montanari fornirono un secolo fa ai Giovani Turchi la manodopera per il genocidio degli armeni. Ottenendone in cambio una furibonda campagna di assimilazione forzata, con cui la Turchia moderna ha tentato di schiacciare nel sangue le loro aspirazioni di autonomia. Persecuzioni analoghe sono state pianificate dai regimi di Damasco, Teheran e Bagdad, culminate nel 1988 in veri e propri bombardamenti chimici della popolazione civile ordinati da Saddam.
La foto-simbolo del capolavoro diplomatico curdo risale al marzo 2011: ritrae Barzani, col suo inconfondibile turbante, mentre inaugura l’aeroporto internazionale di Erbil al fianco del presidente turco Erdogan. Il nemico storico non solo è giunto in visita in quello che di fatto è diventato lo Stato dei curdi, ma vi ha investito miliardi di dollari costruendo un’alleanza di ferro. Oggi una pipeline rifornisce direttamente Ankara col petrolio curdo. Buona parte dei prodotti in vendita nei centri commerciali di Erbil vengono dalla Turchia. L’aeroporto e molti grattacieli sono stati edificati grazie alla partnership col leader neo-ottomano che in cambio ha solo bisogno di mantenere sottaciuta, non dichiarata, l’indipendenza curda.
Nella hall del sontuoso Hotel Rotana incontro Staffan De Mistura, inviato del segretario generale delle Nazioni Unite in Siria. Viene a Erbil perché il governo regionale del Kurdistan iracheno è divenuto protagonista imprescindibile della resistenza allo Stato islamico: “Non tutto il male viene per nuocere”, spiega De Mistura. “La capacità strategica dell’Is di manovrare insieme armamenti tradizionali e terrorismo suicida, oltre che una guerra mediatica ferocemente raffinata, costringe il mondo civile a riunire le forze”. Il perno della nuova alleanza è a Erbil, cioè richiede che venga concessa fiducia alla nuova potenza curda. Pur di vincere le ultime resistenze del turco Erdogan, De Mistura non ha esitato a fare ricorso a un paragone imbarazzante col genocidio balcanico di Srebrenica: “Poiché la battaglia di Kobane ha assunto un rilievo simbolico fondamentale, al di là dell’importanza strategica di quella cittadina, era divenuto essenziale che Ankara autorizzasse il passaggio sul suo territorio dei rinforzi peshmerga curdi”. Ma tale autorizzazione non sarebbe mai giunta se Erdogan non si fidasse del senso di responsabilità dei leader curdi iracheni, molto attenti a non dare fiato alle pretese indipendentiste dei loro confratelli turchi e siriani.
E’ un equilibrio delicatissimo, quello che si sta realizzando in questo Stato di fatto mai dichiarato. Lo si verifica, a sud di Erbil, nella città petrolifera di Kirkuk, definita la Gerusalemme irachena in seguito al complicato mosaico di etnie che la contraddistingue. Fra le altre, vi è una importante comunità turcomanna, di cui Ankara si erge a garante. Se oggi, provvidenzialmente, Kirkuk è entrata a far parte dell’area di influenza curda (catastrofica sarebbe la sua caduta nelle mani dell’Is), si evita accuratamente di chiamare in causa l’articolo 140 della Costituzione irachena, in base al quale un referendum potrebbe ufficializzarne l’ingresso nella giurisdizione del Kurdistan. Si fa ma non si dice, come spesso avviene da queste parti.
Ciò spiega perché nel vecchio suggestivo caffè Bazco, a ridosso della millenaria cittadella di Erbil, ormai circondata dai grattacieli, si pronunci malvolentieri il nome di Mustafa Ocalan, il celebre leader del Pkk detenuto da quindici anni nell’isola-prigione turca di Imrali. E ciò nonostante Ocalan stia trasmettendo inviti alla moderazione ai guerriglieri Pkk restii a scendere a patti con Ankara, convinto anche lui della necessità di creare un fronte unito contro i tagliagole Is. Ocalan resta un simbolo amato, e chissà che domani non possa esercitare una funzione benefica di pacificazione dopo tanto sangue versato, ma per il momento va messo in sordina se si vuole realizzare a Kobane la saldatura fra i peshmerga curdi iracheni e i combattenti siriani curdi del Pyd, temuti dalla Turchia per i legami storici col Pkk. Per coinvolgere davvero la Turchia nella coalizione anti-Is bisogna che l’unica voce ufficiale curda rimanga quella di Erbil. Meglio che Ocalan pazienti in cella e calmi i suoi irrequieti discepoli. Troppo fresco è il ricordo delle vere e proprie manifestazioni di disperazione seguite alla sua cattura, giunte fino al sacrificio dei militanti trasformatisi per protesta in torce umane.
La simpatia crescente che circonda il nazionalismo curdo non può infatti cancellare gli interrogativi sulla potenza con cui oggi occupa la scena. Chi ha vissuto al fianco dei peshmerga la drammatica estate dell’offensiva jihadista, sottolinea la tradizione pluralista e la disponibilità alla convivenza tipica dei curdi. Il direttore dell’Unicef in Iraq, Marzio Babille, protagonista di coraggiose operazioni di soccorso nelle città assediate dai tagliagole, non si stanca di ripeterlo: “Il Kurdistan iracheno è l’unica regione di quest’area insanguinata nella quale vige il rispetto dei diritti umani; e viene praticata una generosa accoglienza dei profughi di ogni confessione religiosa”.
Ma è vero anche che le nuove generazioni, educate con programmi scolastici curdi che non contemplano più il bilinguismo, hanno smesso di imparare l’arabo. Il distacco dall’Iraq è un fatto compiuto. Un secolo fa inglesi e francesi “inventarono” per convenienza anti-turca le false patrie arabe, ora in via di dissoluzione,. I diritti dei curdi furono ignorati completamente. E’ lecito chiedersi, ora, se questo nazionalismo che si fa Stato fuori tempo massimo non darà luogo a nuovi accidenti della storia. Dubbio legittimo. Intanto godiamoci questa isola di libertà in mezzo alla barbarie. Il sole del deserto rende abbaglianti i grattacieli di Erbil, i profughi accampati nelle tende delle Nazioni Unite li osservano pieni di speranza.

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