Perché il Pd ha accolto e candidato un faccendiere come Di Stefano, che portava i soldi in Svizzera scortato dai poliziotti?

venerdì, 21 novembre 2014

Il caso di Marco Di Stefano sta assumendo tratti quasi comici, se non fossero drammatici perchè rivelatori di un malcostume politico diffuso e radicato. I magistrati hanno ricostruito come il deputato del Partito Democratico, accusato di aver preso tangenti per circa 2 milioni di euro quando faceva l’assessore in Lazio, abbia aperto due conti in Svizzera presso una filiale dell’Ubs. Per andare a portare nella Confederazione Elvetica i soldi, intascati in modo illecito secondo i magistrati, Di Stefano sarebbe stato accompagnato dai suoi amici poliziotti. Il deputato PD, prima di entrare in politica, lavorava nella polizia di Stato, e avrebbe sfruttato i suoi antichi contatti per trasferire ingenti quantità di denaro non coerenti con la sua condizione reddituale e patrimoniale. Per  i magistrati della procura di Roma la ricostruzione dei movimenti di Di Stefano, effettuata grazie alla collaborazione con le autorità elvetiche, sarebbe la prova della corruzione, mentre il deputato del Partito Democratico sostiene la sua innocenza. Il caso mette però ancora una volta in evidenza quanto il PD sia spesso protagonista di vicende di malaffare legate alla politica. L’inchiesta Expo così come quella sul  Mose avevano sfiorato il centrosinistra, benché in Lombardia e Veneto governino da anni partiti di centrodestra. La vicenda di Filippo Penati, collaboratore molto stretto di Pierluigi Bersani, non è mai stata affrontata dal punto di vista politico, e sostanzialmente rimossa da una classe dirigente lombarda cresciuta sotto l’ala protettrice dell’ex presidente della Provincia di Milano, punto di riferimento degli ex Ds settentrionali dal 2001 al 2011. Senza contare il rilievo nazionale avuto da Penati durante la segreteria Bersani, che gli affidò il ruolo di coordinatore della sua segreteria politica. L’intera vicenda di Marco Di Stefano interroga il PD. L’ex assessore del Lazio ha parlato, nelle intercettazioni telefoniche, di “brogli” alle primarie 2012, minacciando di far scoppiare “un casino coinvolgendo tutti”. La nomina dell’assessore Marta Leonori che ha permesso a Di Stefano di diventare parlamentare è legata a questa vicenda? Mentre il PD romano discute delle multe di Ignazio Marino, forse dovrebbe aprire una riflessione su un caso che lo coinvolge in modo pesante. La vicenda Di Stefano riguarda anche l’attuale classe dirigente del PD nazionale. L’ex assessore del Lazio era uno dei tanti parlamentari che ha coordinato un tavolo sulla Leopolda, ironicamente sulla “moneta digitale”. La prova di renzismo fatta da Marco Di Stefano indica come il rafforzamento della nuova maggioranza del PD sia avvenuto in modo quantomeno poco cauto, visto che avrebbe coinvolto personale politico con più di un comportamento da “rottamare”. Una riflessione che può essere estesa ad altri casi giudiziari come quello del deputato messinese Francatonio Genovese, e che deve interrogare i vertici del Partito Democratico. Il PD è diventato la formazione politica di riferimento del nostro sistema istituzionale, e non può non porsi il problema di come evitare l’arrivo di personale interessato solo ad arricchirsi con l’eventuale fetta di potere da conquistare. Iniziative legislative sui temi della corruzione e della trasparenza sarebbero davvero benvenute, oltre allo sviluppo di una riflessione più approfondita e sincera su quale sia il rapporto tra poteri economici e politica nell’Italia del 2014.

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