Lo sguardo di Alberto Alfredo Tristano sul Torino Film Festival

mercoledì, 26 novembre 2014

Potrebbe valere quest’anno più che mai una vecchia regoletta di Hollywood per cui più stai inguaiato di malattie e di umiliazioni più si spalancano le porte del successo e forse dell’Oscar. La variante 2014/2015 è offerta da numeri e teoremi, affari complicati per chi non traffichi di fisica e matematica, ma che apre inedite prospettive al nuovo divismo. Prendiamo questo “The Theory of Everything”, presentato al Torino Film Festival, dove il giovane Eddie Redmayne impersona un’autentica icona della scienza contemporanea come Stephen Hawking, dalla giovinezza già benedetta dal genio della fisica, all’incubo precoce della malattia degenerativa che gli atrofizza i muscoli, gli inarca le mani in pieghe innaturali, gli immobilizza le gambe fino a inchiodarlo su una sedia a rotelle, ma non ne ferma le intuizioni. Con esse Hawking che ci ha spiegato come il Tempo abbia inizio, al pari di tutte le cose, cominciando con un buco nero, con un iradiddio di esplosioni e radiazioni, e abbia sposato lo spazio, e abbia formato il Tutto. Hawking è spogliato di ogni monumentalità, offrendosi a un ritratto pulito, corretto e sintonizzato sul gusto del pubblico il più ampio possibile, con le sue goliardie di scommettere coi colleghi un abbonamento annuale di Penthouse, scherzando – ma non troppo – sul Creatore in cui ha forse fede ma non quanto in Wagner, il musico superuomo che forse riscatta la sua immobilità. Insomma è un Hawking, che pur piegato dalla malattia, dal coma, dalla paura (gli danno due anni di vita in gioventù), si realizza e diventa un gigante. Impossibile non amare questo vecchio socialista liberale, rafforzato da una moglie meravigliosa (che pure a un certo punto lascia), che con questa “teoria del tutto” è pronto a diventare uno dei personaggi più popolari della stagione.
E’ forse il grande passo per il suo protagonista, Redmayne. Così come potrebbe essere per Benedict Cumberbatch che in “The Imitation Game” presta corpo e voce a Alan Turing. Una figura perfino più tragicamente – se possibile – abbattuta dalla malasorte di Hawking. Turing, genio della matematica e in quanto tale autentico eroe di guerra visto che riuscì a decifrare la “macchina Enigma”, il sistema con cui i nazisti si scambiavano i messaggi. Fu ripagato in patria da una vera persecuzione per la sua omosessualità. Gli fu imposta una cura di estrogeni, col che gli crebbe il seno. Il rifiuto da parte della società e un corpo devastato furono la causa della sua ultima decisione: il suicidio col cianuro.
Anche con “The Imitation Game” siamo davanti a quell’attraente, simpatetica e talora ricattatoria operazione che figure del genere inevitabilmente suggeriscono: chi non parteggia per lo storpio, per l’handicappato, per il perseguitato, per di più se geniale? Basta anche molto meno, tipo un malato di Aids, sofferente ma volitivo, come il Matthew McConaughey di “Dallas Buyers Clyb”, per avere il consenso di tutti (più l’Oscar). E senza rifare i mille esempi che la storia del cinema offre.
Per certi versi è assimilabile a questo genere di personaggi anche lo Steve Jobs, il genio di Apple scomparso prematuramente, di cui si parla da mesi e con insistenza a Hollywood, tratteggiato dalla grande penna dello sceneggiatore Aaron Sorkin, affidato alla regia di Danny Boyle, e che non riesce a trovare un attore. Di certo sarà divo, e giovane, e bellissimo: saltato Christian Bale, si parla di Michael Fassbender.
Dopo il tempo dei cowboy, dei poliziotti e dei super-eroi, sono i nerd e i cervelloni ad attirare il cinema mainstream. Tutto sommato il successo del Leopardi super gobbo e super intelligente del “Giovane Favoloso” di Mario Martone corre su questa linea, dimostrandosi un film molto più contemporaneo di quanto appaia a prima vista (a proposito di Martone, questi è stato uno dei pochi in Italia a raccontare, e bene, un genio dei numeri: ci riferiamo al Renato Caccioppoli dello splendido “Morte di un matematico napoletano”).
Alberto Alfredo Tristano

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