Fuga in Israele? L’inaccettabile divorzio fra gli ebrei e l’Europa

lunedì, 16 febbraio 2015

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Una piccola barca a remi nera del pescatore Gilbert Lassen è custodita a Gerusalemme nel memoriale Yad Vashem a eterna memoria delle quattordici straordinarie giornate, dal 26 settembre al 9 ottobre 1943, durante le quali l’intero popolo di Danimarca si prodigò per scongiurare la deportazione dei “suoi” ebrei nei campi di sterminio nazisti.

Fu con decine di imbarcazioni come questa che venne portata a buon fine, via mare, la traversata notturna dei fuggiaschi verso la salvezza nella vicina, neutrale Svezia. Un vero e proprio Esodo dalla barbarie. Solo cinquecento ebrei danesi furono catturati dai tedeschi; circa settemila furono accompagnati sull’altra sponda grazie a un’impresa di generosità collettiva che non conosce uguali nell’Europa del secolo scorso.
Mi chiedo come abbia potuto calpestare la memoria di questa gloriosa pagina di storia il premier israeliano Benjamin Netanyahu, quando ieri ha rivolto agli ebrei europei un appello a lasciare le loro case ponendo fine a un secolare stanziamento nel vecchio continente che neanche il nazismo riuscì a perpetrare interamente. E ricavandone l’immediata, lapidaria replica di Michael Melchior, rabbino capo di Copenhagen: “Il terrorismo non è una ragione per emigrare in Israele”.
Leggendario è rimasto l’avvertimento lasciato trapelare da re Cristiano X di fronte alle pretese degli occupanti nazisti: “Se imporranno ai nostri concittadini ebrei l’obbligo di portare al braccio la Stella di Davide, sappiano che anch’io la indosserò in pubblico per le strade di Copenhagen”. Non fu necessario. E’ per questo che –in deroga allo statuto di Yad Vashem- l’intero popolo danese viene collettivamente onorato con il titolo di Giusto fra le Nazioni.
Rileggiamo le parole di Netanyahu, ancor più ultimative di quelle che già aveva pronunciato nel Tempio Maggiore di Parigi dopo gli attentati del gennaio scorso. Ha detto, ieri, testualmente, il leader della destra israeliana: “Ci prepariamo per un’immigrazione di massa dall’Europa. Facciamo appello perché ci sia un’immigrazione di massa dall’Europa. Voglio dire a tutti gli ebrei d’Europa o ovunque essi siano: Israele è la vostra casa, Israele vi aspetta a braccia aperte”.
E’ una dichiarazione terribile. Pretende di risuonare come annuncio di un definitivo divorzio degli ebrei da un continente di nuovo afflitto da un’ondata di antisemitismo. Solo che il premier israeliano non ha alcun titolo di pronunciarla in nome di un ebraismo qui faticosamente rifiorito dopo la Shoah. Una dichiarazione di resa e di fuga che offende la coscienza civile dell’Europa alle prese con una nuova guerra che la sta contagiando, ma che intende fronteggiare salvaguardando i valori della democrazia e della convivenza.
Non a caso la frattura perseguita da Netanyahu a fini di politica interna, nel pieno di una campagna elettorale in cui alimenta la sindrome d’accerchiamento fino a perseguire una contrapposizione frontale col presidente degli Stati Uniti, era già stata rifiutata dai portavoce della Comunità ebraica francese.
E’ vero che un giustificato senso d’insicurezza ha pervaso l’ebraismo europeo alle prese col volto nuovo di un antisemitismo germogliato all’interno delle comunità arabe immigrate sotto forma di jihadismo. Gli attentati alle sinagoghe, alle scuole, ai musei, ai negozi kasher si moltiplicano e mietono vittime. E’ sensibilmente cresciuto il numero delle famiglie che scelgono l’Aliya (“salita”, in ebraico) verso Israele come risposta a una minaccia che si fa ogni giorno più concreta. Ma assecondare l’idea di un’Europa svuotata delle sue comunità ebraiche, e di uno Stato d’Israele bellicosamente asserragliato nella convinzione che la pace con i suoi vicini sia impossibile, equivale a una sottomissione che le democrazie non si possono permettere.
Di nuovo ieri i cittadini di Copenhagen, feriti anche nella loro libertà d’espressione con l’attentato al Krudtoenden café, si sono radunati in gran numero davanti alla sinagoga Krystalgade per esprimere agli ebrei danesi il sentimento di una comune cittadinanza, l’impegno a un destino comune. La premier, Helle Toming-Scmidt ha reso omaggio al sacrificio di Dan Uzan, assassinato perché assolveva al suo servizio di vigilanza mentre all’interno si festeggiava un Bar-Mitzva.
Il divorzio degli ebrei dalla loro patria europea, presentato come rigenerazione dell’ideale sionista, risulterebbe piuttosto come un’amputazione inaccettabile. Siamo impegnati a preservare e coltivare il mosaico della nostra civiltà, se necessario combattendo chi di nuovo vuole frantumarla. L’antisemitismo non si debella isolandosi, ma semmai valorizzando la spiritualità ebraica come patrimonio essenziale e condiviso della nuova Europa. Lo dobbiamo a Dan Uzan e anche ai pescatori danesi che rischiarono la vita per trarre in salvo i loro concittadini perseguitati settant’anni fa.

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