Diana e i ladri di case del Lorenteggio, cronaca di una guerra fra poveri

mercoledì, 18 febbraio 2015

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Strano, la chiave non gira. Com’è possibile? Qualcuno ha cambiato la serratura! Si sentono delle voci all’interno, chi diavolo è entrato in casa mia?
Occupanti contro occupanti, abusivi contro abusivi. O, se volete, “Tutti contro tutti”, come s’intitolava il film di Rolando Ravello del 2013 dedicato alle case popolari italiane trasformate in giungla, teatro di una guerra fra ultimi e penultimi che sta lacerando le nostre periferie metropolitane. Solo che questa storia milanese, ambientata nei condomini Aler del Lorenteggio, è maledettamente vera, nella sua assurdità. Ho mascherato i nomi dei protagonisti, ma i luoghi e i fatti sono reali.
Diana è una donna minuta di 44 anni dalla carnagione olivastra, che ha messo al mondo sei figli. La conoscono tutti nel quadrilatero dei 2750 appartamenti di edilizia convenzionata tra via Lorenteggio, via Odazio, via Giambellino e via Inganni, perché nelle feste di quartiere cucina sempre le Sarmale, involtini di cavolo farciti, specialità romena. Porta il cognome di una famiglia estesa Rom fra le più note di Milano; tutt’altro che una buona referenza. Però, se occorre un’interprete per gli abusivi nuovi arrivati, o per convincere dei genitori riottosi a mandare i bambini nella scuola elementare di via dei Narcisi, dalla Cooperativa Sociale vengono sempre a chiamare lei. E’ anche un modo per darle qualche soldo, visto che il marito non lavora, in casa entra solo lo stipendio di un figlio aiuto cuoco e lavapiatti, mentre la piccola Lara, nata prematura, è affetta da una grave cardiopatia.
Diana mi dà appuntamento all’ingresso di via Segneri 4, dove abita la figlia maggiore che già tre volte l’ha resa nonna. Sul muro di fronte hanno scritto con lo spray: “Occupa e resisti, aiuta il tuo vicino!”. Dei ragazzi obesi confabulano sfaccendati e ci guardano di traverso.
Andiamo a sederci nel bar di via Inganni e Diana comincia a raccontare: “Nel cortile di via Manzano 4 sanno tutto di me perché abito lì da tredici anni, prima in un appartamento e poi in un altro. Occupazione abusiva, certo. Per me era una meraviglia, due stanze, bagno e cucina. A causa della bambina certificata disabile dal Tribunale, l’Aler ci tollerava accettando da otto anni un’indennità di 862 euro a trimestre, e così ha rinunciato allo sgombero”.
Solo che, era fine agosto 2014, a Diana e famiglia scadevano i passaporti per cui, lei racconta, sono tornati dai parenti in Transilvania, a Arad, per rinnovarli. Un’assenza fatale, prolungatasi troppo a lungo, fino al 15 gennaio scorso.
“Di ritorno a Milano, passiamo da mia figlia per regalarle un po’ di salsicce del maiale che avevamo macellato laggiù. Lascio da lei i bambini e vengo da sola in via Manzano per arieggiare e scaldare. Ma la porta non si apre. Mi accorgo che c’è dentro qualcuno. Mi metto a urlare: ‘Fatemi entrare, questa è casa mia!’. Una voce sconosciuta mi risponde: ‘Vattene, cosa vuoi, facci vedere i documenti, io ho pagato per entrare qui’. Gli ho chiesto, per pietà, ci sono dentro i miei mobili, gli zaini di scuola con i libri dei bambini. Niente da fare. Ho gridato più forte, cercato di chiamare i vicini. Ma una vicina è sorda, l’altra è vecchia e confusa. A questo punto li ho anche minacciati: ‘Vado dalla polizia’. Ma loro, a male parole: ‘Ci andiamo noi dalla polizia!’”.
Al Commissariato di via Primaticcio se lo ricordano bene l’arrivo quasi contemporaneo di Diana la romena e di Amina la marocchina. Volevano denunciarsi l’una con l’altra, si accusavano perfino di aver tirato fuori il coltello. Poi si sono calmate e se ne sono andate. “Cosa vuole –mi dice il vicequestore Giovanni Giammarusti- piange il cuore ma storie così se ne presentano continuamente. Facciamo una segnalazione all’Aler, ma non possiamo lasciare lì una volante per delle ore”.
Nell’appartamento che Diana e la sua famiglia occupavano abusivamente da otto anni, pagando una sorta di indennità, ha dunque fatto irruzione la famiglia del muratore marocchino Ahmed con moglie e tre figli. Probabilmente anche loro hanno pagato, per la preziosa segnalazione.
Diana viene a sapere che al primo piano di via Inganni 6 c’è un altro appartamento vuoto. Allunga 300 euro a uno specialista che si arrampica sul balcone con una scala, sfonda la porta e li fa entrare. Ma dopo pochi giorni l’Aler le fa arrivare tramite il presidente del Consiglio di zona 6, Gabriele Rabaiotti, un’ingiunzione di sgombero immediato. Non solo, vista la situazione verranno chiamati gli assistenti sociali per portare via i bambini.
“Cosa dovevo fare?”, allarga le braccia Diana. “Lara è malata, non può separarsi dalla mamma. Rabaiotti si è impegnato a trovarmi un’altra casa Aler e nel frattempo siamo andati a stare nei container del Centro d’accoglienza di via Novara, lontano, in zona San Siro, in mezzo a gente che non vorrei mai frequentare. Alle sette del mattino esco per portare i bambini alla loro scuola, qui al Lorenteggio; e torno in via Novara solo alle nove di sera perché è un ambiente malsano per loro”.
Faccio anch’io lo stesso numero di telefono Aler a cui si sono indirizzati il vicequestore e il presidente del Consiglio di zona per trovare un rimedio alla disavventura di Diana, occupante buttata fuori casa da altri occupanti. E’ un altro nome che sarà meglio tenere coperto, quello del temuto capo ispettore Aler incaricato di sovrintendere agli sgomberi. Possibile che non si potesse restituirle l’alloggio in cui abitava da sei anni?
Ha i modi spicci di chi la sa lunga, il signor Turco: “Mi richiami che sto sgomberando cinquanta ragazzotti dei centri sociali in via Ovada, e poi domattina ho due sgomberi di occupazioni ‘ndranghetiste”. Vado col secondo tentativo e ottengo la seguente risposta: “Ma secondo lei io eseguo un allontanamento forzato per poi riconsegnare la casa a degli abusivi? Tanto vale che lascio dentro i nuovi venuti. E poi, se proprio vuole saperlo, io li conosco bene, i miei polli. Secondo me, quella Diana lì l’alloggio se l’è venduto, e poi pretendeva di riprenderselo”.
Ripenso alla scritta sui muri del Lorenteggio –“Occupa e resisti, aiuta il tuo vicino!”- quando arrivo finalmente sul luogo del delitto, il caseggiato di via Manzano 4. Altro che solidarietà. Subito all’ingresso, seduto con in braccio un cane volpino, mi guarda sospettoso un uomo in tuta: “Ha presente la signora Laura, la vecchietta sempre affacciata alla finestra sul cortile? Non ha fatto in tempo a morire che ieri, zac, hanno sfondato subito, così insieme alla casa si sono presi anche i mobili”. Ci raggiunge sorridendo un anziano distinto, coi capelli a spazzola. Mi sventola davanti un chiavistello: “Lo vede? Sono occupante anch’io, però sto benone perché ci ho la porta blindata, roba solida. Mi è costato mille euro entrare, quando la cugina di un mio amico è tornata giù a Napoli. Ma vuol mettere la tranquillità? Mi avevano sfrattato a Binasco, qui sarà anche un brutto posto ma adesso gli 830 euro della pensione mi avanzano, e chi mi butta più fuori?”.
Nel cortile su cui affacciano tutti i blocchi da quattro piani scrostati di via Manzano 4, incontro due donne custodi dell’Aler. Non appena sentono parlare di Diana si mettono a ridacchiare: “Ci casca anche lei? Quelli sono furbi, ma a noi non ce la fanno su. Ha presente la casa della figlia di Diana, in via Segneri? Ci abitava un vecchietto a cui a sua poverina faceva da badante. E indovini chi ci abita adesso? Un bel pezzo della sua famigliona rom. Buoni quelli… Hanno una bambina malata? E vabbè…”.
Scala L, primo piano, interno 124. Suono finalmente il campanello dell’appartamento conteso ma, ovvio, nessuno mi apre. Aspetto finché arriva il capofamiglia Ahmed, che ammutolisce perché mi scambia per un poliziotto. Riesco solo a strappargli che è un muratore di 51 anni, originario di Casablanca: “Da un anno e mezzo non trovo più lavoro, siamo disperati. Venuti via da Roma in cerca d’aiuto”. Ma come siete entrati qui nell’appartamento? “Io non lo so, non chieda, forse lo sa mia moglie che ora non c’è”. Non sa neanche che ci abitavano Diana col marito e quattro dei loro sei figli? “Chi è Diana? Quando siamo arrivati la casa era vuota. Lasciateci stare. Anche noi abbiamo figli piccoli”.
Vien giù dalla scala un giovanotto slavo che capisce e mi fa l’occhiolino: “Questa casa qui se la sono venduta… e poi Diana e famiglia se n’erano andati in Germania, mica in Romania”.
Mi guardo intorno. Sembra di trovarsi in un campo profughi, un Kurdistan di casa nostra. La vecchietta dell’appartamento di fronte ha lasciato la tv accesa come antifurto, con la voce di Barbara Palombelli al massimo volume, e quando mi vede arrivando coi sacchetti della spesa balbetta solo: “Non voglio saperne niente, io qui non conosco nessuno”.
Il quadrilatero del Lorenteggio coi suoi alloggi degradati, i tetti d’amianto e le case puntellate dai trabattelli perché ci sono balconi che vengono giù, è un concentrato di lacerazioni. La gente con cui Diana condivideva il cortile da tredici anni, incrocia sguardi in cagnesco. Più di tutti mal sopportano i rom, disposti pèiù degli altri a stiparsi in abitazioni sotto il limite dell’inagibilità. Nel quadrilatero del Lorenteggio la percentuale degli appartamenti vuoti perché non ci sono i soldi per rimetterli a posto è elevatissima: 539 su 2750. Poi ce ne sono 250 a macchia di leopardo venduti dall’Aler a privati che, naturalmente, ora sono i più arrabbiati ritrovandosi immersi nel disastro sociale circostante. Quanto agli affitti, il tasso di morosità qui supera il cinquanta per cento. Vai a sapere quanti per indigenza e quanti per furbizia.
L’unico che sembra prendersi a cuore la disavventura della famiglia di Diana è il presidente del Consiglio di zona 6, Gabriele Rabaiotti, forse perché lui deve per forza crederci nel faticoso percorso di integrazione di una donna, quando lei gli dimostra che vuole allontanare i suoi figli dalla rete della malavita: “Mi sembra assurdo che, proprio quando ce la stava facendo, come nel gioco dell’oca, Diana debba ritornare al punto di partenza”.
L’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale (Aler) gestisce il più grande patrimonio di edilizia pubblica d’Italia, forse d’Europa. Ha un buco di 80 milioni e una catena di scandali sulle spalle. Basti pensare che una sua controllata, la Asset, ha investito e buttato via un mucchio di soldi in Libia ai tempi di Gheddafi, mentre qui si continuavano a piazzare lastroni d’acciaio per sbarrare l’accesso agli appartamenti inagibili. Fa impressione: a Milano ci sono diecimila alloggi inagibili su un totale di settantamila alloggi di edilizia popolare.
Dopo un lungo braccio di ferro con la Regione Lombardia, la giunta milanese di Pisapia ha separato la gestione dei 24 mila alloggi di proprietà comunale dalla gestione Aler. Ora c’è la rincorsa a censire finalmente chi ci abita, e con quale diritto: spunta un numero abnorme di inquilini ultracentenari che, naturalmente, sono stati in realtà sostituiti post-mortem da imbucati di ogni specie. Sulle cronache milanesi ogni giorno spunta una rivelazione sui falsi poveri che abitano gratis nelle case popolari mentre godono di un reddito elevato o addirittura danno in affitto immobili di proprietà.
Così viene meno il sentimento della compassione, almeno quella, spettante ai veri bisognosi che sono poi la grande maggioranza. Tanto più che in cima alle graduatorie delle poche case pubbliche assegnabili si trovano sempre famiglie disastrate, gente che nessuno vuole prendersi come vicini di casa. Così si preparano a scoppiare da un momento all’altro le banlieues milanesi. Qualcuno potrebbe chiedersi: non ci sarebbe modo di coinvolgere nel loro risanamento i famosi immobiliaristi delle nuove case di lusso, meraviglie architettoniche, da Porta Nuova a Citylife? Manco a dirlo, chi è subentrato alla decadenza di Ligresti ne condivide la filosofia di una metropoli a compartimenti stagni, e gira al largo.
Diana è convinta che non le restituiscono la casa in cui viveva solo perché lei è rom, e i rom stanno sull’anima a tutti. A loro volta i marocchini asserragliati in quella dimora contesa, penseranno lo stesso. Quanto agli italiani, se la prendono con entrambi. E così la vecchia Milano del Lorenteggio sprofonda in un abisso di miseria e rancore.

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