I soldi non puzzano mai? Se il Qatar compra il futuro di Milano…

sabato, 28 febbraio 2015

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
La minuscola, desertica penisola del Qatar ha un numero di abitanti inferiore all’area metropolitana milanese ed è retta da un emirato semifeudale. Ma ormai, come direbbe Salvini, il Qatar è “padrone in casa nostra”. Sono le regole inappellabili della finanza che stravolge la geopolitica e che, da ieri, assegna alla petromonarchia della dinastia al-Thani l’intera proprietà dei nuovi grattacieli di Milano. Le torri d’acciaio di Porta Nuova, sovrastando la Madonnina, regalano ai milanesi l’orgoglio di una sky-line da metropoli del XXI secolo; ma da oggi la loro visione insinua anche il dubbio: ci toccherà un futuro da colonizzati? Così la città che non è riuscita neppure ad allestire una moschea degna di questo nome in vista dell’Expò, a causa dei pregiudizi che tuttora la affliggono, si trova a fare i conti col potere sovrastante di una bolla finanziaria cresciuta ben più in fretta di quegli edifici avveniristici.
Perché il Qatar non è solo il ricchissimo staterello che può comprarsi i bocconi più prelibati dell’economia mondiale, e in sovrappiù squadre di calcio, case di moda, i quadri di Gauguin e Cézanne. Il Qatar è anche un emirato in cui vige un’interpretazione oscurantista della Sharia, la legge islamica, prodigo di finanziamenti ai Fratelli Musulmani, fin troppo attivo nella destabilizzazione del Medio Oriente e del Nordafrica che sta insanguinando l’intero bacino del Mediterraneo.
Chi ha concluso l’affare per conto del Fondo sovrano del Qatar è uno sceicco di 29 anni, Suhami al-Thani, secondo cugino dell’emiro, tifoso milanista e collezionista di Maserati. Si presenta come amante dello stile di vita occidentale e del gusto italiano, ma dietro a quel Fondo si cela anche un substrato politico impenetrabile nella sua ambiguità: un’economia incline a sbarazzarsi della democrazia, favorita dalla convinzione diffusa che i soldi non puzzano mai. E tanto meno puzzano di petrolio.
Chissà cose ne penserebbe Gae Aulenti, cui è intitolata la nuova piazza milanese su cui affacciano la Torre dell’Unicredit e, subito dietro, il Bosco Verticale disegnato da Stefano Boeri. La storia di questo insediamento da 290 mila metri quadri nel pieno centro storico di Milano, comporta certo un omaggio al talento di un’architettura contemporanea, capace però di esprimersi solo all’insegna dell’edilizia di lusso. Ma è anche la storia ingloriosa del declino degli immobiliaristi milanesi che, con la cementificazione e il gigantismo, si sono arricchiti per decenni prima di finire vittime delle loro stesse malversazioni: i lavori di Porta Nuova furono avviati dalla famiglia Ligresti, cui era associato lo stesso Manfredi Catella che ieri ha realizzato il colpaccio della vendita agli arabi. Catella (e non solo lui) ne esce con una ricca plusvalenza. Si dice che parte di questa liquidità sia destinata a un nuovo investimento nel Lido di Venezia. Siamo sicuri che ne beneficerà il sistema economico italiano?
Di certo Porta Nuova qatariota diviene così il simbolo di una parabola discendente della classe imprenditoriale ambrosiana, ormai incapace di creare imprese durature. Accentua un impulso alla finanziarizzazione dell’economia che ha già ridisegnato il tessuto urbano milanese in pericolosi compartimenti stagni: da una parte nuovi insediamenti destinati ai consumi di lusso; dall’altra una metropoli che vive il rapido degrado delle sue periferie, dove i poveri si fanno la guerra, smettono di pagare l’affitto, e il numero delle case popolari inagibili conosce un drammatico incremento. Due Milano ormai completamente separate, incomunicanti. Con i loro arabi di serie A e i loro arabi di serie B, proprio come avviene da sempre sulla sponda sud del Mediterraneo.
A sollevare questi argomenti, fino a ieri, ci si beccava l’accusa di provincialismo: ma come, disprezzi la ritrovata capacità italiana di attrarre investimenti? Non ti fa piacere che succeda a Milano quel che fino a ieri succedeva solo a Londra e a Parigi? Perché dovrebbe dispiacerci se il flusso mondiale della ricchezza, nella sua corrente impetuosa, lambisce anche la nostra penisola che rischiava di rimanerne completamente tagliata fuori?
Solo che oggi il fenomeno ineluttabile della globalizzazione si intreccia con equilibri geopolitici resi fragili dalla guerra. Nel dramma provocato dall’espansione del sedicente Califfato, lo sappiamo bene, le petromonarchie del Golfo sono divenute al tempo stesso nostri infidi alleati, restando apprendisti stregoni. Il predominio da esse conseguito nei gangli della finanza mondiale le rendono protagoniste imprescindibili; ma la loro natura antidemocratica, nonché la loro strategia di burattinai di un islam oscurantista, ne accrescono la pericolosità.
La politica estera del governo italiano, di fronte a operazioni sul nostro patrimonio di tale entità, non può limitarsi a un semplice “benvenuti”. Quando vendi un pezzo di territorio, in gioco non è solo un’operazione finanziaria.
Guardando il filmato diffuso ieri dall’Is sulla distruzione del patrimonio artistico nel museo di Mosul, non ho potuto fare a meno di pensare ai quadri di Gauguin e Cézanne acquistati per centinaia di milioni di dollari dalla famiglia al-Thani e destinati al nuovo museo di Doha, la capitale del Qatar. Nessuno può contestarne la vendita, ma saranno davvero al sicuro, laggiù nel deserto, quelle tele raffiguranti donne polinesiane e giocatori di carte che suggellano un apice dell’arte europea?
Il nostro destino futuro contempla senza dubbio l’intreccio finanziario e la contaminazione reciproca. Che il quartiere del lusso ambrosiano, oltreché cosmopolita diventi anche in parte straniero, sta nel percorso di un’evoluzione storica inarrestabile. Ma Milano ritroverà fiducia in se stessa non certo attraverso il colpaccio di un finanziere-immobiliarista, già socio degli americani, che vende tutto agli emiri. Bensì quando saprà trasformare questa ricchezza in imprese capaci di unire il profitto a uno sviluppo equilibrato. Come bene o male riusciva alla sua borghesia quand’era meno chiusa in se stessa.

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