Così il camaleonte verdenero ha conquistato Piazza del Popolo

domenica, 1 marzo 2015

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Il camaleonte verdenero ce l’ha fatta. Al termine della sua notevole esibizione di maschia oratoria fascioleghista condita di turpiloquio e sottolineata –lo spiega lui stesso- da un “linguaggio del corpo che è importante”, con ricambio mirato di t-shirt pro-benzinaio veneto che ha ucciso il rapinatore a favore di felpa “Marò liberi subito”, piazza del Popolo lo incorona capo di una nuova destra nazionale.
Se non Duce, almeno ducetto. Glielo concede il portavoce di CasaPound, Simone Di Stefano: “Questa è la più bella piazza che io abbia mai visto a Roma. Oggi nasce un grande fronte politico che riconosce in Matteo Salvini il suo unico leader”. Stampato su uno striscione di fronte al palco, Mussolini fa il saluto romano e dice: “Salvini ti aspettavo”.
Lui li ricambia con l’appello a “tirare fuori le palle” rivolto ai “non omologati alla cultura di sinistra”, perché “io non distinguo gli uomini fra destra e sinistra ma fra produttori e parassiti”. E’ qui che lancerà il suo grido: “Vaffanculo alla Fornero e a chi l’ha portata al governo. Cazzo”, suscitando il tripudio della folla, eccitata anche dall’afrore dei fumogeni da stadio e dai crescendo corali di una musica gotica incalzante.
La nuova destra nazionale trova la sua intelaiatura in una Lega calata dal Nord facendo attenzione a non pronunciare mai la parola “Padania”. Archiviata. Qui si forgia “un popolo fiero” (Giorgia Meloni) pronto a difendere l’Italia da un Renzi che –digrigna i denti Salvini- altri non è se non “il servo sciocco di qualcuno che non ha nome e cognome a Bruxelles”. Un popolo pronto a dire “Stop immigrazione”, anzi, “non passa lo straniero”, come mormorava il Piave cento anni fa.
Ho incontrato decine di leghisti che si godevano la primavera romana, mentre nell’attesa i maxischermi trasmettevano un ininterrotto talk-blob con Salvini one man show. Qualcuno, pochi per la verità, aveva già attaccato un tricolore sotto la bandiera con l’Alberto da Giussano. Vi sentite italiani o padani? “Italo-padani”, mi rispondono dalla provincia di Brescia. Fra loro trovo le uniche due camicie verdi, arrivate da Borgo San Giacomo: “Con tanta gente del Sud abbiamo comuni ideali”. Più entusiasta una varesotta che milita da vent’anni col Carroccio: “Che sollievo, sono felice che apriamo ai meridionali, mi piacciono i loro sentimenti”. Anche se il sollievo riguarda soprattutto l’aver ritrovato un leader: “E’ un puro, Salvini. Puoi rivoltarlo come un calzino e non trovi niente a quel ragazzo lì”.
Alla fine registrerò solo un militante di Monza coi capelli rossi disposto a confidare: “Mi spiace ma non sono d’accordo. Salvini va a dare l’appoggio ai pescatori siciliani, ma secondo me quelli lì non hanno mai pagato le tasse”.
Dettagli marginali. La piazza leghista che si riscalda nell’attesa del gran finale, è già inebriata dall’amalgama a cui Salvini la destina: integrare al suo interno una porzione rilevante della destra romana. Li riconosci per le bandiere tricolori o per gli striscioni “Roma con Salvini”, segnali di una forza attrattiva reale esercitata su una Forza Italia in disgregazione. Per lo più sono ex missini, dallo stato d’animo un po’ interdetto: “Sa come diciamo nelle Marche? In mancanza di meglio si va a letto con la moglie. Di Salvini non è che ci piaccia tutto, ma la confluenza è possibile”.
Fermento sul palco, fra poco si comincia. Alt. Alle 15,15 in punto dal colle del Pincio, inquadrati in una coreografia militaresca studiata al millimetro, discende a serpentina la schiera imbandierata di CasaPound con le tre spighe del suo nuovo brand: “Sovranità”. E con le bandiere dell’Unione Europea sovrastate da una X rossa. Ora la piazza è ancor più fascioleghista.
Potevano mancare i vessilli della Russia di Putin? Sventolano già sul palco quando incontro la bionda Irina e le chiedo se ha un’opinione sull’assassinio di Boris Nemtsov: “Ormai non contava più nulla, e a noi non importa”. Capisco che la fiancheggiano personaggi importanti nel fare da tramite fra la Lega e Russia Nuova, il partito di Putin. Sono il portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, divenuto presidente di un’Associazione Lombardia-Russia, e l’ex deputato Claudio D’Amico che indossa una t-shirt col volto di Putin e spiega: “Ci unisce la lotta in difesa dell’identità dei nostri popoli fondata sui valori della cristianità e della famiglia tradizionale”.
Ora il quadro ideologico del nuovo fascioleghismo, che accantona la secessione padana per farsi destra nazionale, è completo.
Il comizio di Salvini lo riempirà delle robuste dosi di cattiveria richieste a un capo, quando voglia corrispondere al bisogno popolare di “uomo forte”. Eccolo che inizia già con l’esibire i muscoli contro i centri sociali che volevano rovinargli la festa: “Tornatevene là da dove siete usciti”, grida. Inutile dire che “nella nostra Italia non c’è posto per i campi rom”. Qui il tono di voce si altera: “Gli diremo: fra tre mesi arrivano le ruspe, si sgombera. Va a fare il rom da qualche altra parte! E se mi arriva la diffida del Comitato antidiscriminazione –sapete che cosa?- io mi ci soffio il naso”. Ma il culmine deve ancora arrivare: “Per noi non esiste eccesso di legittima difesa. Se entri in casa mia in piedi, devi sapere che puoi uscirne steso”.
La folla è in visibilio, il comizio non fa rimpiangere quelli di Almirante nella piazza del Popolo fascista di quarant’anni fa. Si commuove anche il vecchio signore in sedia a rotelle che sventola una bandiera della Repubblica di Salò. Ora Salvini può strafare. Citando il crollo delle nascite in Italia, rivela che “è in corso un tentativo di sostituzione di popoli”. Chi è il primo ladro in Italia? “Si chiama Stato”. Non arriva a dire –come aveva fatto prima Luca zaia- che “l’operazione Mare Nostrum ci costa un miliardo”. Ma raccomanda alla Marina militare: “Salvateli pure, i profughi, ma riportateli a casa loro”.
“Prima gli italiani” è la parola d’ordine che suggella il patto politico di piazza del Popolo. Italiani cui si promette l’uscita dall’euro e un’aliquota fiscale ridotta al 15%, “così saranno gli svizzeri a esportare da noi i loro capitali”.
E’ qui che Matteo Salvini rivela le sue doti camaleontiche. Con tutte quelle migliaia di leghisti davanti non poteva certo ripetere che ha sbagliato a parlar male dei napoletani. Non dirà neppure “voglio bene a Roma, amo Venditti, a casa mi capita pure di cantare Roma Capoccia”, come testualmente dichiarato in precedenza, per ammorbidire una capitale finora troppo vilipesa. E allora il nostro camaleonte trascolora usando la formula: “Difendiamo l’Italia, anzi, le Italie, perché l’Italia è bella quando rispetta le differenze da Nord a Sud”. A Roma direbbero: un vero paraculo. Ma siccome agli italiani la faccia tosta non dispiace, e qui tutti lo vogliono a capo di una destra che per tutto il pomeriggio Berlusconi non lo nomina neanche più una volta, la formula “L’Italia, le Italie” gliela fanno passare volentieri.
Il camaleonte è velocissimo nell’adattarsi al progetto della nuova destra nazionalista. Se appena eletto segretario della Lega auspicava la deportazione “in un’isola deserta del Pacifico circondata da squali” di Rutelli, Veltroni e Alemanno -colpevoli di aver cumulato un deficit di 16 miliardi al Campidoglio- sentite come ha risposto a un intervistatore romano nei giorni scorsi: “Non voteremo più contro i fondi per Roma Capitale, purché vengano usati bene”.
Precipita così nell’irrilevanza lo scontro politico veneto fra Zaia e Flavio Tosi. Qui, con la benedizione di Marine Le Pen, si annuncia la prossima cacciata del governo Renzi e l’inizio di un’offensiva continentale contro Bruxelles, figuriamoci se qualcuno si abbassa a trattare di beghe locali. In piazza, i veneti sembrano tutti convinti che alla fine Tosi si adeguerà e rientrerà nei ranghi. Ma il non detto di quella lacerazione è un sintomo: cambiare pelle alla Lega, pur nell’ebbrezza del successo, non sarà faccenda indolore. Perché da quasi tre decenni il Carroccio è composto da un delicato equilibrio di localismi, e quindi il leghismo che diventa partito nazionale snatura un modo di essere leghisti di territorio che è stato anche un patrimonio di militanza, oltre che di clientele. Quando Giuseppe Berta, nel suo ultimo saggio “La via del Nord” (Il Mulino) annuncia la fine della questione settentrionale, perché la società del Nord non è più il motore dello sviluppo del Paese, forse sta spiegandoci anche la scelta di Salvini: “L’offerta politica ormai è uguale a tutte le latitudini”, tanto vale smetterla di fare i padani, meglio occupare l’enorme spazio lasciato vuoto a destra.
Quando lo speaker alla fine grida “Siete in centomila, fatevi sentire!”, l’avrà anche sparata grossa. Ma l’energia sotterranea della destra italiana ieri si è davvero condensata in piazza del Popolo, sviluppando una capacità d’attrazione sui delusi di Forza Italia e del M5S che potrebbe dare esiti sorprendenti. Il ducetto camaleontico Salvini sospinto da una corrente reazionaria fino a Palazzo Chigi? Oggi ci appare assurdo, ma provate a contare quante volte il nostro paese si è già misurato con esiti assurdi. A Roma il fascioleghismo ha celebrato il suo battesimo ufficiale. Sottovalutarne il pericolo equivarrebbe a ignorare la storia d’Italia.

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