Questo articolo è uscito su “La Repubblica”
La Tunisia è l’esile ponte fra le due sponde del Mediterraneo che i jihadisti vogliono far saltare per aria.
Stroncando vigliaccamente la vita di tante persone inermi, colpevoli solo di aver dedicato una visita a quell’intreccio storico millenario che il Museo del Bardo rappresenta, con i suoi antichi mosaici romani, il fanatismo islamista ha voluto prendere di mira l’idea stessa di cultura e interscambio mediterraneo. Cioè il flusso da cui trae linfa la nostra civiltà.
Fermarli comporta un’assunzione di responsabilità troppo a lungo rinviata. Un rinvio di cui si comprendono le ragioni: siamo turbati dalle implicazioni militari della scelta che s’impone al nostro governo e all’Unione Europea. Ma che, sia pure con tutte le precauzioni del caso, sarebbe ben più pericoloso rinviare ancora.
Quando i nostri concittadini vengono presi in ostaggio a centinaia, e l’Europa viene sospinta con ferocia a considerare zona d’accesso proibito la sponda meridionale del mare in cui si bagna, è evidente che un’azione di polizia internazionale diviene imperativa. E che l’Italia, diretta interessata, viene chiamata dalla geografia a esserne protagonista.
Fin troppo chiaro è l’obiettivo della furia criminale dispiegata a Tunisi: aggredire l’unico paese musulmano che sia riuscito ad avviare una faticosa transizione democratica dopo la cacciata del tiranno a furor di popolo nel 2011. Di più. La resistenza coraggiosa di una società civile tunisina che condivide con noi i valori del pluralismo e della laicità, ha lacerato al suo interno la Fratellanza musulmana, trascinando una parte cospicua degli integralisti a partecipare del processo costituzionale. Fino a provocare una preziosa spaccatura nello stesso fronte islamista.
Insopportabile, tutto questo, per gli aspiranti restauratori di un Califfato che da secoli non esiste più e che viene da essi riesumato sotto forma di guerra di religione oscurantista.
Vogliono sabotare il laboratorio tunisino per farne un’altra Libia e seminare il caos in tutto il Maghreb, fino a cercare una rivincita perfino in Algeria, il luogo della loro prima sconfitta storica.
Perchè ce ne siamo dimenticati? L’Algeria vent’anni fa ha vissuto un martirio con oltre centomila morti, interi villaggi massacrati all’arma bianca dai tagliagole del Gia. E quell’ecatombe, anticipatrice della guerra in corso oggi, venne scandalosamente favorita dalla nostra indifferenza. Anche lì donne brutalizzate, anche lì una società civile e una libera stampa umiliate dai diktat integralisti, fino a che l’esercito algerino non è riuscito a debellare i jihadisti in un bagno di sangue.
La storia, però, non si ripete. L’attentato di Tunisi fa parte di una strategia militare ben più estesa e calcolata, dalla Mesopotamia all’Africa con diramazioni nel cuore dell’Europa.
L’inazione a questo punto sarebbe fatale. Anche perchè c’è un secondo fattore che tendiamo a esaminare malvolentieri, magari riducendolo a incognita militare, e rimuovendone (per il disagio) l’enorme portata culturale: di anno in anno sotto i nostri occhi raddoppia -sì, raddoppia- il numero dei guerrieri islamici disposti a suicidarsi, ripudiando ogni logica dettata dall’istinto di conservazione. Ormai sono migliaia di giovani, quando non ricorrono a ignari fanciulli. Incensati come martiri, scelgono la propria morte come scorciatoia provvidenziale, in una visione ottusa del monoteismo che dal loro sacrificio umano trarrebbe linfa vitale. E nella distruzione dell’edificio pagano -che può essere impersonato da un bambino o da una statua o da un mosaico, non importa- adempiono il loro compito rivoluzionario, la realizzazione di una Nuova Epoca. Perchè il giacimento di volontari per la mattanza sembra essere inesauribile? Ormai non li contiamo neanche più, e invece per combatterli dovremmo imparare a conoscerli.
La proliferazione degli aspiranti terroristi suicidi, la disponibilità a morire pur di scaricarci addosso il loro odio, naturalmente ci risultano talmente estranei da paralizzarci quasi per lo spavento. E così diventano anche il motivo per cui fatichiamo a immaginare un’azione militare che sia davvero efficace, nell’asimmetria fra i combattenti.
Si è fatto giustamente notare che un intervento tradizionale sul terreno del Califfato, o nel magma desertico delle tribù libiche, rischia di trasformarsi in una trappola. Si è ipotizzato un blocco navale davanti alla Libia accompagnato da presidi a supporto di forze di resistenza locali e da corridoi umanitari. La scelta militare è imprescindibile, e al tempo stesso ne avvertiamo tutti i limiti, perchè è chiaro che in questo conflitto le implicazioni culturali sono altrettanto decisive. Non aiuterà il conclamato irrigidimento di Netanyahu contro la nascita di uno stato palestinese, quando i musulmani per primi sono chiamati a farsi protagonisti di una partnership con le democrazie europee contro il jihadismo.
Le insidie di un’azione di polizia internazionale fanno tremare le vene dei polsi. Ma la scelta contraria di asserragliarsi sulla sponda nord del Mediterraneo, nell’illusione di poter interrompere il flusso che da sempre ci lega ai nostri vicini mediterranei, equivarrebbe a un gesto di autolesionismo.
Tanto per cominciare, se la minaccia libica non fosse bastata ancora a smuoverci, la difesa della Tunisia come ponte d’unione della democrazia e del Mediterraneo è diventata da ieri, a un secolo dal 1915, una nuova strategica linea del Piave.