Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Il tratto di riluttanza e timidezza personale con cui Giuliano Pisapia ha sempre tenuto a contraddistinguere il suo impegno pubblico – un po’ gran professionista borghese, un po’ dirigente comunista vecchio stile- non deve trarre in inganno, ora che annuncia il passo indietro da sindaco di Milano. Non di pensione anticipata si tratta, almeno nelle intenzioni. Semmai, anche attraverso l’esempio della rinuncia, Pisapia aspira a realizzare un’impresa mai riuscita a nessuno dei suoi predecessori, da Carlo Tognoli a Gabriele Albertini: diventare protagonista milanese nella politica nazionale, innestandovi il modello sperimentato quattro anni fa, quando proprio a lui, il modesto Pisapia incapace di alzare la voce in un comizio, riuscì l’impresa di liberare Palazzo Marino dopo vent’anni di egemonia assoluta della destra.
Nel caso specifico, Pisapia non ha alcuna intenzione di aderire al Pd –rispetto al quale si è collocato più a sinistra, a Milano, in materia di diritti civili e politiche sociali- ma al tempo stesso teme le conseguenze nefaste di una eventuale scissione in quel grande partito. Dall’anno prossimo, se farà in tempo, Pisapia vorrebbe modificare il copione già scritto della contrapposizione fra le diverse anime della sinistra: governo Renzi da una parte, opposizione minoritaria dall’altra. Immagina per sé, fra gli altri, uno spazio di possibile garante unitario; disposto a rinunciare a un incarico pur di offrire un servizio.
Ingenuo? Nostalgico? In fuga perché sovrastato dalle incombenze? Dicevano così di lui anche quando Pisapia si candidò sindaco di Milano: “Figuratevi se un esponente dell’estrema sinistra potrà mai insidiare il blocco di potere moderato nella capitale degli affari”. E invece sappiamo com’è andata. Usando più volentieri il “noi” che l’”io”, quasi scusandosi per aver dovuto avanzare una candidatura personale, Pisapia innanzitutto galvanizzò una sinistra popolare milanese dispersa nelle periferie. La trasformò in energia vitale sui temi della trasparenza e della buona politica, così conquistando la simpatia dei giovani e infine pure il credito di settori borghesi delusi dall’affarismo berlusconiano e ciellino.
Risale ad allora la scelta di non candidarsi per un secondo mandato da sindaco, anche se fino all’ultimo Pisapia l’ha tenuta in sospeso nel dubbio che ciò significasse riconsegnare Milano a una destra acefala ma tuttora bene inserita nei gangli del potere ambrosiano.
Di mezzo, poi, c’era l’Expò, un appuntamento concepito dai predecessori su cui Pisapia è intervenuto solo di rimessa. Dapprima lo imbarazzava l’inevitabile condominio con Formigoni. Poi, dopo il crollo del Celeste, è stato il binomio nazional governativo Lupi-Martina a prendere le redini della Grande Opera.
Quel che Pisapia può sostenere con legittimo orgoglio, è che nessuno dei numerosi scandali o ruberie venuti alla luce in questi anni ha mai lambito la sua giunta di sinistra. Trasparenza e onestà sono le virtù civiche che anche gli avversari e i numerosi critici devono riconoscerle. La differenza con le amministrazioni del passato in materia di legalità risalta felicemente. Così come risalta la battaglia vinta per una forte limitazione del traffico automobilistico privato.
La lista delle inadempienze, oltre che dei provvedimenti impopolari dovuti ai tagli di bilancio, non può essere certo occultata. Molti elettori di Pisapia si dichiarano oggi delusi, e con molti buoni motivi. Ma chi ricorda il marasma e l’avidità ostentata dalla politica milanese prima di Pisapia, deve riconoscere almeno un successo d’immagine conseguito da questo pessimo comunicatore: il sindaco uscente può legittimamente chiedere di essere ricordato come il “liberatore” di Milano, dopo decenni di malgoverno amministrativo. In questo senso oggi Pisapia può parlare di “missione compiuta”. E guardare con una certa serenità alla competizione già iniziata all’interno del centrosinistra milanese per succedergli a Palazzo Marino.
Da professionista della politica navigato, in questi anni Pisapia ha sempre mantenuto un legame di collaborazione con Renzi; dialogo mai interrotto, neanche quando altri esponenti della sua area d’appartenenza, come Vendola o Landini, iniziavano a accusare il premier di essere diventato un uomo di destra. Ora la speranza di Pisapia è che Renzi non spinga il Pd locale all’incasso, ma al contrario apprezzi i benefici nazionali derivanti anche per il Pd dall’equilibrio unitario che la sinistra milanese ha saputo preservare.
A Milano gli emiri del Golfo si comprano i grattacieli e i cinesi si comprano la Pirelli, mentre nei quartieri popolari cova un disagio sociale ai limiti dell’incendiario. La figura del sindaco, davanti a simili macrofenomeni, appare rimpicciolita, per non dire impotente. Neanche la prossima benefica invasione cosmopolita dell’Expò basterà a invertire queste dinamiche di separazione dentro la metropoli.
Pisapia con la sua scelta di rinuncia al potere sollecita i cittadini milanesi: cominciate a pensare al dopo. Non lasciate che ci pensino altri, sopra la vostra testa. Ricordate come furono vere, appassionate, partecipate le campagne elettorali delle primarie e delle amministrative fra il 2010 e il 2011.
E’ il commiato di un sindaco di sinistra che crede per davvero nella democrazia