Raphael Lemkin e la fatica di ricordare il genocidio armeno che “non conviene”

lunedì, 13 aprile 2015

La semplicità ammirevole con cui papa Francesco chiama le cose con il loro nome, e dice “genocidio” a proposito dello sterminio del popolo armeno perpetrato nel 1915, per scelta del governo turco dell’epoca, mi richiama alla mente un personaggio poco noto ma che in questa vicenda ha svolto un ruolo decisivo.
Si tratta di Raphael Lemkin, un avvocato ebreo nato a Leopoli (la regione d’origine della mia famiglia paterna) quando la si considerava Polonia, e non come oggi Ucraina.
Impressionato dalla determinazione con cui un nazionalista armeno immigrato in Germania aveva voluto uccidere (con la punta avvelenata di un ombrello) un ambasciatore turco, Lemkin studiò quel primo sterminio novecentesco e non smise più di occuparsene. La sorte ha voluto che mentre Raphael Lemkin si prodigava perchè la Società delle Nazioni perseguisse gli Stati responsabili di massacri di popolazioni discriminate sul piano etnico, linguistico, religioso, nazionale, lui stesso fu costretto a fuggire per causa della persecuzione nazista degli ebrei; decine di suoi familiari furono sterminati dopo l’occupazione tedesca di Leopoli. Ma ormai l’avvocato Lemkin si prodigava instancabilmente per sensibilizzare la comunità internazionale contro quei crimini, che lui per primo definì con il termine “genocidio”. Una parola controversa, sconveniente rispetto alle pratiche disinvolte della realpolitik, ma infine -dopo un impegno solitario durato una vita- accolta nel 1951 in una dichiarazione ufficiale delle Nazioni Unite.
Nel giorno in cui papa Bergoglio ha parlato con semplicità inoppugnabile del genocidio armeno perpetrato dai governanti turchi, mi piace ricordare Raphael Lemkin che con la medesima semplicità e tenacia -senza cercare alcun vantaggio personale- portò gli occhi del mondo a guardare ciò che di solito si preferisce ignorare.

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