Cronaca di un funerale di Stato nella Milano lacerata dal rancore

giovedì, 16 aprile 2015

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Piacerebbe raccontare il caldo abbraccio di Milano ai servitori della giustizia uccisi dentro il loro Palazzo; se non altro per corrispondere alla straordinaria prova di dignità fornita dai familiari. Ma questi funerali di Stato vibravano d’ansia, piuttosto che di passione.
Intorno alle bare del giudice Ferdinando Ciampi e dell’avvocato Lorenzo Claris Appiani deposte sul pavimento intarsiato del Duomo, una coreografia solenne alternava i pennacchi rossoblu dei carabinieri in alta uniforme e le mitre bianche dei vescovi ausiliari al seguito del cardinale Angelo Scola. Il vertice della Repubblica, primo fra tutti un terreo Sergio Mattarella, i presidenti delle Camere e del Csm, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, hanno taciuto avvolti nell’incenso della Chiesa ambrosiana.
Nonostante l’alta temperatura di una primavera precoce, faceva freddo nel Duomo. Affollato ma non gremito, tanto più se si pensa che gli avvocati a Milano sono diciottomila e che anche sul sagrato, all’esterno, dietro le transenne, i cittadini si contavano a centinaia piuttosto che a migliaia. Il lutto cittadino non ha riempito piazza Duomo, nei vuoti della quale risaltavano le berline parcheggiate in attesa delle autorità, presidiate dalle forze dell’ordine.
E così il funerale di Stato ha trasmesso la sensazione di una Roma venuta a Milano sospinta dal timore. Il dubbio, cioè, che la furia omicida di Claudio Giardiello –per il quale Scola ha chiesto di pregare, nella speranza che la “giusta pena espiatoria” lo aiuti a prendere consapevolezza del terribile male commesso- sia il segnale di una giustizia da troppo tempo prossima al collasso.
Prima della messa, l’arcivescovo aveva accompagnato il presidente della Repubblica nel luogo più sacro del Duomo, la cripta di San Carlo, per un incontro privato con i parenti delle vittime. Posata la stampella, ad attenderli seduto in una navata laterale c’era anche il commercialista Stefano Verna che ancora non si capacita della fortuna di essere sopravvissuto: “A Claudio Giardiello avevo perfino stretto la mano, mezzora prima. Il suo proiettile è passato a due centimetri dalla mia arteria femorale”.
L’omelia, poco dopo, avrebbe sollecitato i milanesi a superare le “dialettiche talora strumentali fra le parti”. Una città lacerata, angosciata da incontrollabili pulsioni di rancore, per la quale anche l’uomo di Chiesa invoca l’urgenza di recuperare la virtù laica che l’ha sempre contraddistinta: “una sorgente di amicizia civica”, che scaturisca dall’esempio dei Giusti che sono morti e dei loro familiari che hanno raccomandato prima che sia troppo tardi una nuova armonia fra i litigiosi amministratori della giustizia. E una severa limitazione delle troppe armi distribuite fra cittadini irresponsabili.
Seguire l’insegnamento dei Giusti è stato il filo conduttore di tutta la cerimonia religiosa, dal Vangelo di Giovanni al Libro della Sapienza. Quasi che la perdita del senso di giustizia fosse il morbo che attanaglia Milano e l’Italia intera. Simboleggiata anche dall’assenza della terza bara di fronte all’altare, quella del coimputato Giorgio Erba, che la famiglia ha voluto salutare lontano dal funerale di Stato. I familiari del socio di Giardiello, vittima anch’esso della stessa pistola, separandosi privatamente nel Duomo di Monza, dove pure in mattinata li aveva raggiunti il presidente del Senato, Pietro Grasso, volevano forse manifestare un distacco da una giustizia in cui non credono? Il loro silenzio va rispettato, ma certo quell’assenza somiglia a uno strappo.
All’uscita dal Duomo, dopo l’eucarestia, un cerimoniale rigidissimo convogliava le autorità romane lungo un percorso transennato fino alle loro automobili. Solo il sindaco Pisapia ha fatto il gesto di avvicinarsi ai cittadini rimasti in attesa, dai quali erano partiti timidi applausi rivolti solo alle due bare. Mattarella, Grasso, Boldrini, Orlando, Legnini, la giudice costituzionale Cartabia, sono invece tornati subito a Linate per il volo di Stato che li riportava a Roma. Pare che a bordo si sia affrontata un’altra questione spinosa che suscita scandalo nella pubblica opinione: i vitalizi di cui godono ancora i parlamentari decaduti in seguito a condanne penali.
Fra i deputati e i senatori cui erano riservate alcune file sul lato sinistro della navata maggiore del Duomo, non mancavano alcuni protagonisti della manifestazione dell’11 marzo 2013, quando 150 parlamentari del Pdl si radunarono sulla gradinata del Palazzo di Giustizia di Milano e accennarono perfino un’irruzione nell’aula del processo Ruby. Sembra passata una vita, ma sono solo due anni. Impossibile non pensarci ieri mattina quando, prima del funerale, sono andato alla camera ardente allestita nell’atrio del Tribunale, sotto il bassorilievo di Arturo Martini. Una scenografia riportata in auge dalla fiction televisiva sul 1992, l’epopea di una giustizia milanese che osava scontrarsi con il potere della corruzione, scoprendone le risorse nascoste. Oggi nel lutto quel Palazzo si sforza di aggrapparsi a valori di civiltà messi in dubbio da troppe parti.
Incontro di nuovo, accanto al feretro del figlio di 37 anni, Lorenzo Claris Appiani, l’indomita avvocatessa Alberta Brambilla Pisoni. Una madre che trova anche la forza di sorridere rievocando gli anni in cui fondò il primo studio legale di sole donne con le colleghe Acerbi e Caroglio Bonificio: “Ci chiamavano le avvocatesse con gli zoccoli. Ogni venerdì, con le magistrate e le cancelliere, si svolgevano qui dentro incontri di autocoscienza e di riflessione sulla giustizia”. Non le piace che il suo Lorenzo venga trasformato in eroe, ora che l’hanno ammazzato: “Lui non era Ambrosoli. Lui era uno di noi avvocati che abbiamo il tarlo, la passione di occuparci degli affari degli altri, generosamente”.
Sul sagrato del Duomo, più tardi, incontro Silvia Giani, la giovane magistrata che in extremis, venerdì scorso, nell’Aula Magna del Palazzo, aveva chiesto di dire una parola fuori programma sul collega Ferdinando Ciampi. Era rimasta in camera di consiglio, con lui, fino a pochi minuti prima che lo raggiungessero i due fatali colpi di pistola. Le chiedo se davvero, come aveva promesso, il lavoro del Tribunale Imprese era ripreso immediatamente: “Le confesso che proprio subito subito non ce l’abbiamo fatta. Ma ieri io ho preso in mano due cautelari a lui intestati. E con dolore, con affetto, i suoi fascicoli stanno già seguendo le procedure necessarie”.
Qualcuno fa del sarcasmo fuori luogo sulla grande folla che aveva invaso piazza Duomo per i funerali di Mike Bongiorno. Come se la giustizia umiliata nel suo luogo deputato, non altrettanto popolare, rendesse consigliabile evitare la scelta dei funerali di Stato.
Invece Milano, per quanto rattrappita e illividita dal senso comune trasformato da un esagitato in azione criminale –i soldi sono miei, le tasse sono un furto, la giustizia non s’impicci- ha un bisogno vitale di risvegliare l’”amicizia civica” di cui ha parlato Scola, la cui sorgente rischia altrimenti di disseccarsi. Non è stato un bagno di folla, il funerale di Stato. Ma un tributo doveroso a istituzioni minacciate dalla solitudine.
Non avevano fatto in tempo a sciamare i partecipanti alle esequie, che già una fila di cittadini lunga fino al Duomo si ricomponeva davanti all’ingresso di Palazzo Reale: pazientavano in attesa di partecipare all’anteprima della grande mostra su Leonardo da Vinci allestita in vista dell’Expo. Milano non si ferma mai.

I commenti sono chiusi.

I commenti di questo blog sono sotto monitoraggio delle Autorità. Ti preghiamo di mantenere i toni della discussione entro i limiti di buona educazione e netiquette in essere come regole del blog. Inoltre usa con moderazione i seguenti comandi di formattazione testo.