#NessunoTocchiMilano La domenica del risorgimento civico

domenica, 3 maggio 2015

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Milano risorge, armata di spugne e detersivi. Perfino lo studente-pirla Mattia Sangermano, resosi celebre per la demenziale esaltazione a colpi di turpiloquio di uno sfascismo che invano tentava di camuffarsi da rivolta sociale, ieri ha chiesto scusa davanti alla telecamera di RepubblicaTv. Non è riuscito a smetterla di ripetere la parola “bordello”, ma in compenso darà una mano a pulire e andrà a visitare l’Expo insieme ai compagni di classe.
Lieto fine? Magari. Lo sfregio rimane. Fa paura constatare che nel cuore della metropoli ad appiccare il fuoco basta l’anticapitalismo da paninoteca di poche centinaia di lanzichenecchi, per i quali il Nemico s’annida dentro a un negozio di hamburger, una pasticceria, gli sportelli bancomat, le automobili parcheggiate, o anche solo le facciate dei palazzi da imbrattare. Vigliacchi capaci di accanirsi in gruppo a bastonate su un poliziotto già a terra.
La tattica di contenimento delle forze dell’ordine è riuscita a limitare i danni, pagando il prezzo di undici agenti feriti e sopportando la protesta di chi non si capacita che i black bloc disseminati nel corteo del 1 maggio non si potessero individuare in anticipo. Ma intanto la festa tanto attesa, l’inaugurazione dell’Expo palcoscenico mondiale, si è ritrovata avvolta in una coltre di fumo ben diversa da quello delle Frecce Tricolori.
Oggi pomeriggio in piazzale Cadorna, l’epicentro del sabotaggio, i milanesi convocati dal Comune si ritroveranno a migliaia per riprendersi la loro città deturpata. Un moto d’orgoglio civico generato sui social network al grido di #NessunoTocchiMilano. Una prova d’amore e di esasperazione scattata fin dalla notte fra l’1 e il 2 maggio, affiancando gli operatori della nettezza urbana dell’Amsa nelle prime opere di pulizia. Come se Milano volesse cancellare al più presto i segni di una finta guerra che l’ha offesa. Un malessere che già serpeggiava da quando i vandali avevano insozzato con lo spray la Darsena dei Navigli riaperta al pubblico solo il giorno prima. E da quando, giovedì scorso, avevano preso in ostaggio un corteo studentesco per fare le prove generali della violenza.
Nelle drammatiche ore pomeridiane intercorse fra gli incidenti e la serata di gala della Scala, il ministro degli Interni, Angelino Alfano, ha temuto che una richiesta di dimissioni partisse al suo indirizzo anche da Palazzo Marino. Ma il sindaco Pisapia, riunito con la sua giunta in una seduta drammatica, ha preferito far ricorso al sentimento ambrosiano che più gli è caro: rimboccarsi le mani e partecipazione civica. Quando, domani, lunedì pomeriggio, Matteo Salvini radunerà in piazza Scala la protesta dei leghisti, ormai i cittadini volontari lo avranno anticipato. Stavolta è stato più lesto il giovane segretario milanese del Pd, Pietro Bussolanti, che già il 1 maggio pomeriggio metteva in rete la proposta di mobilitarsi per restituire a Milano la sua bellezza infranta.
Quando i più vecchi hanno visto le colonne di fumo innalzarsi su corso Magenta, via Carducci e via De Amicis, inevitabilmente il pensiero è corso alla primavera di trentotto anni fa. Era il 14 maggio 1977. In mezzo a quelle strade si appostarono, col passamontagna calato sul volto, i militanti di una estrema sinistra che andavano in corteo con la pistola. Le braccia tese, assassinarono il vicebrigadiere Antonio Custra con un proiettile in faccia. Milano ha temuto di essere ripiombata in quegli anni. Ma gli incappucciati nerovestiti di oggi sembrano, per il momento, decisamente più isolati dai movimenti di rivolta sociale, rispetto ai predecessori. Fra i cinque arrestati del 1 maggio 2015 con l’accusa di devastazione, solo una era già nata nel 1977. Figli della televisione, cercavano lo spettacolo dell’incendio di Milano piuttosto che l’egemonia della rivolta. Ormai è troppo tardi, ma la redazione di “Milanoinmovimento”, tra i portavoce del corteo dei precari, lamenta: “Anni di lavoro sui contenuti e di lotte, letteralmente spazzati via dalla scena pubblica”.
Bastava spostarsi di qualche chilometro più a nord, fra i milanesi che a decine di migliaia affollavano i padiglioni dell’Expo, per riconoscere l’anacronismo tragico di un’ideologia grottesca, ridottasi a combattere McDonald’s e la Coca Cola.
Certo, partecipare alla cerimonia dell’inaugurazione significava ritrovarsi nel mezzo di tutto quanto l’establishment italiano in cerca di riscossa. A parte Berlusconi e Salvini, c’erano proprio tutti. I ministri, i governatori, gli ex premier, i presidenti delle squadre di calcio, i banchieri, gli industriali, i manager pubblici, i generali. Il produttore cinematografico Aurelio De Laurentiis seduto vicino al cardinale Gianfranco Ravasi e all’arcivescovo Scola. Giorgio Armani e Massimo D’Alema ugualmente infagottati nel cellophane per ripararsi dalla pioggia. Maurizio Lupi che guardava amaro da lontano Graziano Delrio. Lo sciame di telecamere intorno alla famiglia Renzi. Cuochi stellati e veline traballanti sui tacchi.
Eppure, nonostante le crepe e i vizi di questo establishment, si percepiva un moto popolare più vasto. La comune aspirazione di rimettersi all’onor del mondo. L’emozione dei quattro lavoratori multietnici col loro caschetto giallo che incedevano solenni fino a consegnare la bandiera tricolore nelle mani dei carabinieri col loro bellissimo pennacchio, simili a quelli di Pinocchio.
Musica epica da mondovisione, prima che il direttore generale dell’Expo, Giuseppe Sala, citasse i suoi testimonial d’eccezione: Emma Bonino, Ermanno Olmi, Salvatore Veca, Carlo Petrini, Giorgio Armani, Andrea Bocelli. E Pisapia col suo benvenuto militante sui diritti dei popoli. Fino a che tocca a papa Francesco che in collegamento vola davvero una spanna sopra gli altri: “Vi invito a percepire anche nei vostri padiglioni la presenza nascosta dei poveri, i volti di milioni di persone che oggi non mangeranno in modo degno…”.
Renzi, lo si sa, fa il Renzi. Accoglie di buon grado la deformazione dell’inno di Mameli intonato dal coro dei Piccoli Cantori, “Siam pronti alla vita”. E se “l’Italia abbraccia il mondo”, “il mondo assaggia l’Italia”. E’ più forte di lui l’impulso alla contrapposizione retorica contro l’avversario sconfitto, in questo caso i “signori professionisti del non ce la farete mai”. Commuove Letizia Moratti, ringraziandola per l’impegno profuso. Su Prodi, viceversa, sorvola.
Finalmente, via tutti a mescolarsi nella folla-caleidoscopio di ogni razza e colore, lungo il decumano e in visita ai padiglioni. Una visione straniante, perché gli architetti hanno stilizzato le tradizioni, le hanno plasmate nella tecnologia. L’effetto è una commistione mirabolante. Il passaparola è d’entusiasmo quasi unanime per un Expo che avvicina gli israeliani, con la loro irrigazione a goccia, e gli iraniani, con le loro erbe aromatiche; i ghirigori metallici del Regno Unito e le cupole ondeggianti della Cina. Bisognerà tornarci. La visita richiede ore.
Mi ferma l’ad di Finmeccanica, Mauro Moretti, e indica sorridendo un signore stempiato con sacca a tracolla: “Lo vede quel ragazzo? Meno di un anno fa, quando hanno arrestato il general manager constructions Angelo Paris, ho suggerito a chi di dovere che lui sarebbe stato l’unico manager in grado di fare il miracolo, vista la sua esperienza all’Italferr”. Si chiama Marco Lettighieri. Poco più in là, Fedele Confalonieri in veste di critico musicale discuteva la prestazione musicale del pianista Lang Lang in piazza Duomo, la sera prima. Saggiamente piazzato su un lato periferico, Slow Food vendeva confezioni biodiversity di formaggi squisiti, mentre schiere di visitatori digiuni si incolonnavano dappertutto in lunghe file.
Il gran giorno dell’esposizione universale volgeva dunque per il meglio, nonostante le spruzzate di pioggia, quando hanno cominciato a circolare le voci del saccheggio in corso nel centro di Milano. Da quel che si sentiva, davvero si temeva che ci scappasse il morto. La Turandot alla Scala, da palcoscenico del bel canto, pareva trasformarsi in ulteriore appuntamento di scontro cruento.
Invece la forze di polizia sono state capaci di circoscrivere l’azione dei vandali sulla frontiera della basilica paleocristiana di Sant’Ambrogio, poco distante dalla colonna in cui –narra la leggenda- il diavolo conficcò le corna mentre cercava di trafiggere il protettore di Milano. Così, prima di sedersi nel palco reale della Scala, l’ex presidente Giorgio Napolitano ha potuto far mostra di sarcasmo: “Preoccupato per gli scontri? Abbiamo visto di peggio”. E’ vero, anche se Milano se l’è vista brutta, nel Primo Maggio tanto atteso del suo nuovo risorgimento. Per fortuna non le manca l’energia per rimboccarsi le maniche. Domani sarà di nuovo tirata a lucido.

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