Due libri sul sionismo: la differenza che passa fra i pionieri dei kibbutz e i coloni religiosi

martedì, 9 giugno 2015

La retorica imperante nella destra israeliana che oggi guida il paese, è che i trecentomila coloni che hanno costruito insediamenti oltre la “linea verde”, nei territori palestinesi occupati ormai da quasi mezzo secolo, rappresenterebbero il cuore pulsante del sionismo. Il suo volto eroico. Più volte i coloni, fra i quali prevale una versione religiosa del sionismo molto spesso acquisita per “conversione” in contrasto con le loro origini laiche, si rappresentano come gli unici legittimi eredi dei pionieri socialisti del secolo scorso; cioè coloro che mettendo in comune i loro pochi beni, scegliendo un durissimo lavoro manuale, bonificando terre aride e pietrose, diedero vita ai primi Kibbutz. Cercando la convivenza con i villaggi arabi vicini e organizzando l’autodifesa quando divenivano oggetto di minacce aggressive.
In poche parole, i settlers messianici del 2015 racchiuderebbero nella loro esperienza l’energia vitale, gli ideali e la spiritualità dei fondatori dello Stato d’Israele. Nè importa che i pionieri del secolo scorso fossero derelitti in fuga dall’Europa mentre i coloni del ventunesimo secolo giungano agli insediamenti da percorsi assai differenti, protetti da un’armata che garantisce loro una schiacciante superiorità militare.
Per comprendere a fondo l’involuzione del movimento sionista, nel suo passaggio dalla matrice rigorosamente laica, socialista e comunitaria all’attuale visione messianica-apocalittica di realizzatori di un disegno divino, vi propongo la lettura parallela di due bellissimi romanzi. A volte la letteratura aiuta a comprendere la realtà più di tanti resoconti storici e giornalistici.
Il primo romanzo che vi propongo è “Ladri nella notte”, magistralmente scritto da un autore della levatura di Arthur Koestler nel 1946, ripubblicato solo come e-book (euro 6,99) dalle edizioni Tiqqun. Koestler, nel corso della sua vita avventurosa di esule perseguitato in giro per il mondo, ha vissuto in prima persona negli anni Venti del Novecento la costruzione di un kibbutz nella Galilea settentrionale. La scriverà nel 1946, ambientandola però sul finire degli anni Trenta, cioè nel periodo in cui il mandato britannico bloccò l’immigrazione in Palestina degli ebrei che fuggivano dalle persecuzioni in corso in Europa. Magistrale è la ricostruzione del loro arrivo, del loro impatto con i vicini arabi, delle fatiche materiali e dei traumi che si portavano dentro, della contrapposizione con le autorità, del dibattito fra ala dura e ala dialogante del sionismo laico di allora.
Il secondo romanzo, ambientato in un insediamento di coloni sorto nel deserto di Giudea in tempi recenti, per impulso e sotto la protezione di un governo israeliano di oggi, lo ha scritto Assaf Gavron, uno dei migliori protagonisti della letteratura ebraica contemporanea. Si intitola “La collina” e lo pubblica in italiano l’editore Giuntina. E’ un ritratto doloroso e umoristica al tempo stesso di personalità afflitte da crisi esistenziali, messe in crisi dall’impatto con la modernità, disinvolte nell’oscillare fra lo spinello e la scoperta di un’ortodossia dogmatica. Li seguiamo nelle loro vicissitudini personali e nell’uso strumentale che la nuova politica di potenza fa di loro.
La lettura parallela dei due romanzi consentirà a tutti di verificare l’abissale differenza fra questi due universi comunitari in apparenza assimilabili.

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