I risultati deludenti del Jobs Act e la tentazione del governo di inventare nuovi posti di lavoro che non ci sono

lunedì, 31 agosto 2015

Sono ormai passati 6 mesi dall’entrata in vigore del Jobs Act, la riforma del lavoro adottata dal governo Renzi, ad oggi la misura di politica economica più importante dell’esecutivo del segretario PD insieme agli 80 euro per i redditi medio-bassi. Il nuovo contratto a tutele crescenti, che ha eliminato la tutela giudiziaria per i licenziamenti economici illegittimi garantita dall’articolo 18, è stato “accoppiato” a un maxi incentivo, entrato in vigore all’inizio dell’anno, per sussidiare le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Le imprese hanno ottenuto uno sgravio dei contributi dei nuovi dipendenti senza precedenti, ma i risultati non ci sono stati. Il governo presenta un quadro che si scontra con la realtà dei numeri. Settimana scorsa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha dovuto ripubblicare i dati delle attivazioni e cessazioni dei nuovi contratti, dopo aver ammesso di aver inflazionato di diverse centinaia di migliaia il dato ufficiale. Matteo Renzi ha ammesso il (macroscopico) errore, ma ha ribadito nell’intervista al “Corriere della Sera” di domenica 30 agosto 2015 come “i numeri dei contratti a tempo indeterminato sono buoni, anche dopo la correzione. Gli occupati crescono, i cassintegrati scendono, la ripresa c’è. Non è la prima volta che si fa confusione sui numeri, spero sia l’ultima”. Il presidente del Consiglio però ha fatto un’affermazione falsa, come mostra il grafico dell’Istat sullo stato dell’occupazione in Italia riportato da Francesco Seghezzi.

Gli occupati in Italia sono diminuiti, e come nota la ricercatrice economica e collaboratrice del Manifesto, Marta Fana, la prima ad aver evidenziato gli errori di calcolo del ministero del Lavoro, il saldo dei contratti a tempo indeterminato è positivo, ma la tendenza appare negativa. Su “La Repubblica” di lunedì 31 agosto Valentina Conte traccia un bilancio in chiaroscuro dei primi sei mesi del Jobs Act. “Sei mesi di Jobs Act. O meglio, sei mesi con il nuovo contratto a tutele crescenti, il cuore della riforma del lavoro del governo Renzi. Come vanno le cose? Non benissimo. Il tasso di disoccupazione dei giovani è al massimo storico: 44,2%. Il tasso di occupazione dei giovani è al minimo storico: 14,5%. Così anche in generale: giù l’occupazione al 55,8%, su la disoccupazione che ora viaggia al 12,7%, dopo aver sfiorato il 13% record a novembre. Nel mese di giugno – ultimi dati Istat a disposizione, domani arrivano quelli di luglio e del secondo trimestre – si sono persi 40 mila posti sull’anno prima e aggiunti 85 mila disoccupati. Questa la fotografia”. Come nota giustamente la giornalista de “La Repubblica”, la deludente dinamica dell’occupazione, con occupati in calo e tasso di disoccupazione in aumento, è spiegata essenzialmente dalla stagnazione che attraversa l’Italia dopo i due anni di recessioni subiti tra il 2011 e il 2013. Al momento le misure del governo non hanno stimolato un aumento del Pil sufficiente a creare nuovi posti di lavoro, nonostante il quadro favorevole creato dal calo dell’euro, del prezzo del petrolio e la maxi liquidità fornita ai mercati finanziari dal QE della Bce. La tentazione del governo Renzi, palese negli ultimi mesi di crescente nervosismo, appare quella di “inventarsi” una ripresa occupazionale che si scontra però con la realtà dei numeri. Per questo motivo il governo ha spinto sulla diffusione dei dati di Inps e ministero del Lavoro, per mascherare con i “milioni” di contratti attivati dati occupazionali in realtà ben più deludenti forniti dall’Istat. Gli unici valori che indicano la dinamica del nostro mercato del lavoro. Una contraddizione ben evidenziata da questo tweet di un giovane deputato del PD, Marco Di Maio, che ha parlato di ben 250 mila posti di lavoro in più nei primi sei mesi dell’anno (secondo Istat occupati sono calati di 40 mila), riferendosi in realtà al numero dei contratti poi smentito dal governo.

Sempre Valentina Conte rimarca come in realtà la contraddizione tra dati Istat e numeri forniti dai ministeri non sia contraddittoria come appare dalla comunicazione del governo, che la lega a una crescita occupazionale per ora pressoché inesistente.

Se un giovane viene stabilizzato, dunque passa da un contratto a termine al tutele crescenti, per ministero e Inps è un +1, mentre per l’Istat è zero (lavorava prima e lavora ora). Dire dunque, come fatto dal ministero del Lavoro la settimana scorsa (pasticciando sui dati, poi corretti) che nei primi sette mesi dell’anno sono stati creati 117 mila contratti a tempo indeterminato e 210 mila trasformazioni (il 40% in più sul 2014) non significa che il tasso di occupazione si impenna. Piuttosto che il lavoro nuovo cambia pelle: un po’ meno precario, un po’ più stabile (ma senza articolo 18).

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