Carlo Maria Martini, profeta nel conflitto delle interpretazioni

mercoledì, 16 settembre 2015

E’ in libreria, edito da Piemme, “Martini e noi”, una raccolta di numerosi ritratti e testimonianze sul cardinale Carlo Maria Martini, uno dei più grandi innovatori della Chiesa di Roma nel suo passaggio al terzo millennio. Il volume è curato da Marco Vergottini, che fino all’ultimo rimase da amico al fianco di Martini. Vi propongo qui di seguito il mio contributo.

“La controversia fra Pietro e Paolo è un esempio di sana dialettica, sempre esistita nella vicenda cristiana. Una dialettica che diventa pericolosa solo quando porta a mutue esclusioni, a scomuniche”.
Intervista al “Corriere della Sera”, 3 maggio 2001

Carlo Maria Martini si apprestava a lasciare la guida della Diocesi di Milano per trasferirsi a Gerusalemme a proseguire quell’opera di studio biblico e dialogo interreligioso che rimane uno dei suoi lasciti più fecondi. Rievocammo quella discussione fra gli apostoli che, in una grotta di Antiochia, aveva infine visto prevalere il punto di vista di Paolo: offrire il messaggio cristiano agli incirconcisi, superando l’ambito normativo ebraico e rivolgendosi ai pagani, con la sensibilità dei quali la nuova fede messianica aspirava così a entrare in sintonia, universalizzandosi.
Il gesuita Martini, con la sua esegesi del Primo Testamento, era stato un assertore fervente della radice ebraica del cristianesimo. Considerava il mistero della persistenza ebraica nei secoli del disprezzo e della persecuzione come un dono provvidenziale, in contrasto con le dottrine prevalse per secoli nella Chiesa. Ma nello stesso tempo rivendicava l’universalizzazione del messaggio biblico scaturita dall’apertura paolina. Si era alla vigilia del pellegrinaggio di Giovanni Paolo II nella moschea di Damasco, che custodisce al suo interno la tomba di Giovanni il Battista. E Martini vi intravedeva la possibilità di sviluppare un dialogo con l’islam, nelle cui rigidità non aveva difficoltà a riconoscere analogie con la fisionomia esibita dalle Chiese cristiane prima del loro incontro-scontro con l’età dei Lumi.
Già prima di allora mi ero imbattuto nell’opera di Martini arcivescovo, su due piani: l’elaborazione culturale aperta all’incontro con il diverso, senza timore delle trasformazioni che ne sarebbero derivate per entrambi i contraenti; e il rapporto personale con persone travolte dallo scontro ideologico e dalle piaghe sociali del tempo contemporaneo. In fondo l’approccio era il medesimo: sia che desse vita nell’aula magna dell’Università di Milano alla Cattedra dei non credenti; sia che, nel carcere di San Vittore, favorisse riservatamente l’incontro fra i colpevoli di violenza terroristica e le loro vittime.
Con lungimiranza, prima di lasciare una Milano incattivita dall’egoismo e dalla paura dello straniero, aveva voluto investire una cospicua donazione patrimoniale nella Casa della Carità, prezioso luogo d’accoglienza affidato a un sacerdote, don Virginio Colmegna, di cui era stato maestro spirituale. Tutte le volte che ci siamo ritrovati in quel bell’edificio, in cui è custodita la memoria di innumerevoli storie di disagio e ingiustizia, vi sentivamo presente lo spirito martiniano.
Ma anche al Biblico di Gerusalemme, dove lo ritrovammo ormai assai debilitato, il suo impegno non si era limitato allo studio dei testi sacri. Ne aveva fatto la sede di confronti all’apparenza temerari fra ebrei e palestinesi che avevano perduto i loro cari nella guerra mediorientale. Seguiva da lì, con tacito disagio, l’esasperazione identitaria che affliggeva anche la sua amata Chiesa dopo gli attentati del settembre 2001. Lui, intellettuale europeo che guardava con ammirazione fiduciosa al progresso tecnico-scientifico, rifiutava però di asserragliarsi in una visione difensiva della Chiesa come baluardo dell’Occidente minacciato.
Non a caso, nell’ultimo conclave a cui partecipò, fu il primo a anticipare la candidatura di un cardinale argentino di nome Bergoglio.
Mal sopportava, certo, di essere annoverato nella categoria dei dissidenti. Gli dava fastidio sentir parlare di una corrente ecclesiastica legata al suo nome. Il suo orizzonte non è mai stato quello delle lotte di potere all’interno della Chiesa, neanche quando pareva destinato a rimanerne vittima: come dimenticare la lettera inviata al Papa dal responsabile di un movimento fortemente radicato nella sua Diocesi, nella quale si raccomandava di cancellarne l’eredità nefasta?
Suppongo che chi lo percepiva come pericoloso innovatore, e dunque come insidia rispetto a una tradizione cristallizzata nella struttura ecclesiale, fosse disturbato dal suo tratto altero. Li indispettiva il successo che riscuoteva anche in ambienti intellettuali lontani. Non potevano rimproverargli disattenzione alcuna nella cura del rapporto diretto con i fedeli e i sacerdoti, ma la missione pastorale non derogava mai dalla disciplina culturale nel linguaggio, non indulgeva nella giovialità popolaresca di altri, pur rispettabilissimi, vescovi. Da qui l’equivoco di una sua presunta freddezza.
Talmente solido era Martini nella fede, da poter testimoniare i suoi dubbi. Talmente umano nel riconoscere le sue fragilità, da non aver paura che gli altri, nel dialogo, potessero trasformarlo e arricchirlo.

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