Il peccato dell’indifferenza. L’Europa, la Shoah, la strage nel Mediterraneo

martedì, 29 settembre 2015

La Commissione Diritti umani del Senato ha pubblicato un fascicolo che riunisce gli interventi tenuti il 28 maggio 2015 alla Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani e il 23 giugno 2015 al Memoriale Binario 21 della Stazione Centrale di Milano sul buon uso della memoria storica di fronte al dramma dei profughi. Vi compaiono gli interventi di Pietro Grasso, Laura Boldrini, Luigi Manconi, Sandro Portelli, Liliana Segre, Piero Terracina, Seble Woldeghiorghis, insieme al mio che vi propongo qui di seguito.

Non ero affatto sicuro che la “Fondazione Memoriale della Shoah Binario Ventuno”, oltre al Senato, avrebbe consentito di ospitare un incontro sull’argomento oggetto di questo incontro e, aggiungo, avrei compreso e rispettato un eventuale diniego perché ho ben presente la delicatezza degli accostamenti e delle analogie, dei paragoni storici. So quante volte essi siano stati motivo di strumentalizzazione e di manipolazione volgare della storia.
Poi, se posso dirlo con una battuta, mi è capitato di vedere arrivare all’ingresso del Memoriale di via Ferrante Aporti l’elegantissimo vicepresidente Jarach con in mano una tinozza di plastica e dentro tanti detersivi a spiegarmi, con riferimento ai migranti accolti dalla Fondazione grazie a S. Egidio: “Ci siamo resi conto ieri sera che le signore che ospitiamo hanno bisogno di lavare i panni” e mi si è non solo allargato il cuore, ma ho ben compreso come si può fare un uso buono e molto concreto dei memoriali e dei monumenti che ci sono preziosi.
E mi sono ricordato, guardando le brandine che molti di voi avranno visto entrando nell’Auditorium della Casa della Carità del caro don Virginio Colmegna in via Brambilla, che un luogo di cultura per necessità può doversi rapidamente trasformare in un luogo di accoglienza.
Dicevo che avrei rispettato e compreso anche un’eventuale diniego perché ho in special modo presente la cautela del mondo ebraico di fonte a paragoni storici.
Quante volte è accaduto che dentro al conflitto mediorientale si facesse il paragone tra la Striscia di Gaza e il ghetto di Varsavia.
Basterebbe davvero, se non fosse atroce, la contabilità delle vittime, per ricordare che nel ghetto di Varsavia nel giro di due anni, dico in due anni, furono sterminate il doppio delle persone che sono morte in oltre un secolo di guerra arabo-israeliana. Ma non è questo il piano sul quale possiamo scivolare pericolosamente per giocare con la storia.
Sappiamo che intorno alla manipolazione della storia si sono addirittura inventate Nazioni, che si sono riaccesi conflitti etnico-religiosi sopiti da secoli e che questa è la storia recentissima anche del nostro continente.
E allora azzardare il paragone si può? Quante volte lo abbiamo chiesto a persone come Liliana Segre e PieroTerracina.
Glielo abbiamo chiesto perché non ci sentivamo autorizzati a fare paragoni dalle analogie, che pure capivamo, quando nelle prime visite al “Binario Ventuno” della Stazione Centrale di Milano anche noi, così come molti di voi, abbiamo fatto l’esperimento di entrare in uno di quei vagoni per restarci in piedi, stipati in tanti, e solo per qualche minuto, per provare a immaginare, soltanto a immaginare, che cosa poteva significare il viaggio di giorni e giorni lì dentro.
Certo, poi può scattare il paragone con le immagini che abbiamo visto dei gommoni, dei barconi, nei quali vengono ammucchiati, gli uni sugli altri, i fuggiaschi dalla sponda sud del Mediterraneo.
Si capisce bene, naturalmente, la differenza tra chi è stato deportato e costretto a entrare in questi vagoni e chi invece, per libera scelta, considerandolo – probabilmente a ragione – la più ragionevole delle proprie possibilità di sopravvivenza e di ricerca della felicità, per sua volontà è andato a stiparsi (spogliandosi di tutto e pagando) pur di andare su quei barconi.
Le differenze sono evidentissime, eppure esistono molte categorie anche psicologiche e culturali che ritornano in modo impressionante. Lo conferma il paragone che ha fatto Liliana Segre tra gli scafisti e i passatori.
Ma si può estendere questo meccanismo al tema specifico dell’indifferenza? Una indifferenza che ha bisogno di dissimulazione, che ha bisogno di darsi alibi morali, ha bisogno di meccanismi di desensibilizzazione?
Noi, per poter essere indifferenti alla sorte dei perseguitati di oggi, abbiamo bisogno di dire a noi stessi che non è proprio così; e lo possiamo fare in varie maniere, la più elementare delle quali è quando diciamo che “sarà anche così, ma io non posso farci niente. Qui è già saturo, io non sono in grado di aiutarli”.
La Svizzera avrebbe dovuto ospitare la conferenza internazionale sulla sorte dei profughi e rifugiati nel 1938, che poi si tenne in Francia. Ma il Governo elvetico ritenne poco opportuno in quel momento – era da poco avvenuta l’invasione dell’Austria – occuparsi del numero dei profughi e dei fuggiaschi che provenivano dai territori sottoposti al controllo del regime nazista, numero che era cresciuto fino a contare centinaia di migliaia di persone. La Svizzera ritenne che non era il caso di compromettere i buoni rapporti diplomatici con la Germania nazista in quel momento. E poi c’era quel tema: “La barca è troppo piena. E se noi diamo un segnale di poterne accogliere degli altri, questo non funzionerà come incentivo?”.
Ciò nondimeno la Conferenza ebbe luogo. Iniziò il 6 luglio del 1938 e durò nove giorni. Si tenne sempre sul lago di Ginevra, ma sulla sponda francese, nella cittadina di Evian. Lì si radunarono i rappresentanti di trenta Paesi i quali posero subito la questione delle quote, se fosse cioè possibile una ripartizione per quote dei fuggiaschi distribuendone l’onere in proporzione.
E non appena la maggiore delle potenze partecipanti alla conferenza di Evian, cioè gli Stati Uniti di Roosevelt, che pure avevano promosso l’iniziativa, dichiararono che gli Stati Uniti per quell’anno e anche per gli anni a venire non erano in grado di accogliere una quota di profughi maggiore rispetto a quella che già accettavano, cioè ventisettemila all’anno, partì come un segnale per tutte le altre Nazioni partecipanti. Tutte quante alzarono le mani dicendo: “Non possiamo”. E il Governo inglese aggiunse: “Non possiamo e non vogliamo. Perché annunciando una politica di ripartizione per quote oggi, questo funzionerebbe domani da incentivo non soltanto per gli ebrei in fuga dall’Austria e dalla Germania, ma anche per quelli dell’Ungheria, della Romania e della Polonia, che si sentono in pericolo, e avremmo un’ondata migratoria incontrollabile.”
Questo avveniva nel 1938. La storia non si fa con i se e con i ma e le differenze rispetto ad oggi sono fondamentali, a cominciare da una maggiore sensibilità su questi temi.
Tuttavia sono d’accordo con Liliana Segre che nel dibattito pubblico si riconosce e c’è questo dato: “La barca è troppo piena, non possiamo farci niente. È una tragedia storica, l’avvertiamo come tale, sì, ma non possiamo farci niente.”
Poi c’è un meccanismo di desensibilizzazione che si nutre invece del disagio sociale, che enfatizza il tema dell’emergenza e del degrado. Questa parola è stata molto usata a proposito della vetrina di Milano e dell’Expo, che avrebbe subito il degrado dovuto alla presenza di alcune centinaia di fuggiaschi. In questo caso il meccanismo della desensibilizzazione ha funzionato così: “Ma non staranno facendo i furbi? Saranno davvero tutti profughi? Non sarà che in realtà solo una minoranza di loro avrebbe diritto allo status di rifugiato e che la maggioranza è fatta di gente che addirittura abbandona la famiglia, gente che avanza solo pretese, gente che negli alberghi protesta perché non c’è il wi-fi?”
Lo abbiamo sentito dire spesso in televisione: “Sono furbi: solo una piccola quota ha davvero bisogno di noi, ma per fortuna noi siamo più furbi di loro”.
L’indifferenza si nutre anche di ostilità e di pregiudizio esattamente come accadeva settant’anni fa, perché le leggi razziali, le discriminazioni di ebrei, rom e sinti, furono precedute da campagne ostili in seguito alle quali si diceva: “Questa gente, in qualche modo, se l’è cercata”; “Questa gente per noi è pericolosa”.
Io credo che noi dobbiamo sempre tenere conto di questo tipo di argomenti, di un linguaggio che si nutre – non a caso – di violenza verbale; che non a caso accosta, cosa simbolicamente devastante – gli uomini e le donne ai topi: i topi e i clandestini che ci invadono.
È un linguaggio che torna ancora una volta. E allora io credo che in questo senso sia giusto effettuare l’azzardo del paragone storico di cui abbiamo detto; credo che un luogo, come ad esempio il Memoriale della Shoah, come “Binario Ventuno”, che svolge la funzione di sentinella della memoria, come quella che svolgono oggi le comunità ebraiche in Europa, possa essere per noi uno strumento prezioso sul piano culturale, pur con tutte le cautele che ci siamo detti.
C’è un’ ultima parola terribile che aleggia e sulla quale non osiamo spingerci, che è la parola “genocidio”.
È vero che non si può fare un paragone oggi con il genocidio che fu perpetrato in Europa 70-75 anni fa, ma è altrettanto vero che ci sono regioni del mondo alle quali noi siamo indissolubilmente legati da fattori storici ed economici.
In queste regioni, che si parli dell’Eritrea o del Centro Africa o del Sahel, o che si parli della Regione della Mesopotamia, tra Siria e Iraq, esiste davvero la possibilità concreta che un genocidio si consumi, che addirittura esso sia in parte già incominciato.
E di nuovo voltarsi dall’altra parte, ignorando questo tema, la brutalità di questo dato, io credo che questo avvilirebbe la nostra stessa civiltà, la nostra stessa capacità di relazione e di sensibilità. Credo che quando si analizzano queste analogie sì può provare anche del sollievo, perché i numeri sono diversi.
Il vertice dei Capi di Stato e di Governo di Bruxelles del 25 e 26 giugno prossimi discuterà di come ripartire in Europa un numero di ventiquattromila richiedenti asilo sbarcati in Italia e di sedicimila sbarcati in Grecia (quarantamila in tutto), in una Unione Europea che conta cinquecento milioni di abitanti!
Si è parlato del passaggio a Milano di circa sessantamila profughi, rifugiati, fuggiaschi. Di essi solo cinquecento circa – vanno tolti molti zeri – hanno chiesto asilo in questa città. Questi sono i numeri con i quali ci confrontiamo.
Le decine, le centinaia di arrivi quotidiani pongono sicuramente un problema di emergenza sopportabile e anche sul piano del degrado non manca chi abbia ricordato cosa erano le nostre stazioni ferroviarie alcuni anni fa dal punto di vista della pericolosità. E non parliamo delle malattie e dell’ignoranza che ad esse si collega!
Credo che siamo invece di fronte a un fenomeno che – sia pure nel disagio e nelle difficoltà – può essere in qualche modo gestito e accompagnato. Vanno però preservati quei principi, quei valori fondamentali che la storia dovrebbe averci insegnato, in virtù dei quali nessuno può essere condannato a vita per via del luogo in cui è nato. Non possiamo accettare che in questo nostro mondo contemporaneo ci sia un’assoluta libertà di circolazione dei capitali finanziari e, al contempo, un assoluto divieto ad esercitare il diritto di spostamento volto a migliorare la propria vita.
Questi sono i principi fondamentali. Questi principi andranno poi governati, gestiti, filtrati. D’accordo! Purché ci sia qualcuno tra le sentinelle e i testimoni, come Liliana Segre e Piero Terracina, che sia sempre pronto ad affermare e ribadire questi stessi principi.

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