Il Jobs Act è stato la riforma del governo Renzi più apprezzata dall’establishment internazionale, abituato a considerare l’Italia come nazione eccessivamente sindacalizzata e imbrigliata da normative che penalizzano l’impresa. Non produce occupazione aggiuntiva, ma migliora la reputazione dell’Italia in quegli ambienti (dove dei diritti dei lavoratori se ne fanno un baffo). Per questo era logico aspettarsi il passo successivo adombrato in questi giorni dal governo, e sollecitato dalla Confindustria che interrompe la trattativa diretta con le parti sindacali sulla riforma del modello contrattuale. Si tratta di mettere in pratica ciò che diversi economisti consigliano almeno dall’estate 2014 a Renzi: consentire una deroga ai minimi sindacali previsti dal contratto nazionale di categoria, per quelle aziende che vivono una congiuntura sfavorevole. Istituire un salario minimo nazionale (molto minimo) in sostituzione di quelle voci salariali vincolanti categoria per categoria, decisamente più alte. Il ragionamento è che pur di mantenere in piedi un’azienda pericolante sarebbe meglio chiedere ai suoi dipendenti un sacrificio economico, riduzioni di stipendio, piuttosto che ricorrere alla cassa integrazione.
Sterilizzare il contratto nazionale di categoria consentendo più autonomia alla contrattazione aziendale, nell’attuale situazione economica vuol dire nè più nè meno accettare come “male minore” un generalizzato abbassamento dei salari. Siamo sicuri che sia questa la ricetta vincente per la ripresa italiana?