Ricordo di Luciano Gallino, il grande sociologo del lavoro che, restando moderato, ormai passava per intransigente

domenica, 8 novembre 2015

Si è spento a Torino, all’età di 88 anni, Luciano Gallino, uno dei più autorevoli sociologi italiani. Nei suoi confronti provo un sentimento di riconoscenza per il generoso aiuto che più volte mi ha fornito, in particolare nelle mie inchieste sulla condizione operaia alla Fiat. Qui di seguito, un mio ricordo.

Invano ho cercato di verificare tra i suoi amici e i suoi discepoli una leggenda metropolitana riguardante l’approdo di Luciano Gallino alla disciplina sociologica di cui è diventato uno dei più grandi maestri in Italia. Riguarda i suoi primi incontri con Adriano Olivetti, l’imprenditore che nel 1956 lo assumerà nel mitico Ufficio Studi di Ivrea diretto da Alessandro Pizzorno, quando Gallino aveva 29 anni (essendo nato a Torino nel 1927) e nessuna formazione universitaria. Di lui si sa che proveniva da una famiglia operaia e che aveva partecipato in veste di meccanico collaudatore a due edizioni della Millemiglia.
Più d’uno dei miei interlocutori aveva sentito dire, in effetti, che Luciano Gallino lavorasse a una pompa di benzina dove Adriano Olivetti si fermava a far rifornimento sulla strada verso il suo ufficio. Lì avrebbe notato che il giovane in tuta si portava sul posto di lavoro dei testi classici di sociologia, per leggerli durante le pause. Nelle loro occasionali conversazioni si sarebbe rivelato quel talento –meticolosità scientifica unita a passione e forza di volontà- che avrebbero condotto Gallino dall’esperienza comunitaria di Ivrea fino all’insegnamento universitario, e poi dal 1968 alla direzione dei “Quaderni di sociologia” e alla presidenza del Consiglio italiano per le Scienze Sociali.
Fatto sta che nessuno ha mai osato chiedere direttamente a Gallino se la svolta decisiva della sua vita fosse giunta davvero a quella pompa di benzina: tanta era l’autorevolezza contraddistinta da timido riserbo piemontese che la sua figura sprigionava. Prendetela dunque per quello che è, una leggenda metropolitana che circola tuttora a Torino, utile comunque a delineare la fisionomia del personaggio. Un uomo severo e modesto, sempre al servizio dei suoi studenti nel seminterrato di Palazzo Nuovo. Lui che non aveva avuto la possibilità di seguire un corso di laurea, avrebbe riversato nell’università tutto il suo proverbiale senso di disciplina e la sua insofferenza per ogni forma di superficialità o, peggio ancora, di esibizione personale. Piace qui ricordare il raro valore di questa figura di autodidatta, esperienza che Gallino condivide con un altro pilastro della sociologia italiana, Aris Accornero, operaio licenziato dalla Riv Skf prima di diventare professore. Con la differenza che Accornero militò nelle file del Partito Comunista, mentre Gallino rifiutò sempre l’ideologia di classe nel suo approccio alla vita d’impresa e all’organizzazione del lavoro. Dalla militanza nell’olivettiana “Autonomia aziendale” passò all’adesione al Partito Socialista, sempre però tenendosi distante dalle tentazioni della carriera politica.
Il tragitto della sua lunga vita di studioso ha infine dato luogo a una conclusione per certi versi beffarda, di cui egli certamente non si sarebbe compiaciuto. Luciano Gallino, infatti, è uno di quei riformisti tutti di un pezzo, un intellettuale schivo e per sua natura moderato, al quale è toccato in sorte di apparire negli ultimi anni duro e polemico, solo perché ha avuto la coerenza di tenere ferma la sua visione della funzione sociale dell’impresa. E’ un grossolano equivoco, nel quale rischiano di incorrere anche i lettori del nostro giornale che hanno avuto modo di apprezzarne gli interventi di denuncia sull’assurdità del Fiscal Compact, sulla dittatura del FinanzCapitalismo, sull’iniquità delle politiche di smantellamento del diritto del lavoro e del welfare.
Troppo facile rinchiuderlo negli stereotipi dell’intellettuale “contro”, refrattario all’innovazione. La sua critica all’involuzione di un capitalismo sottomesso ai banchieri e alla dissipazione di risorse sacrificate sull’altare dell’austerità, reca l’impronta di una cultura riformista. Neanche nel 1968, quando assumeva la direzione dei “Quaderni di sociologia” e fra le nuove leve dell’accademia qualcuno lo additava ingiustamente come un barone, Gallino non strizzò mai l’occhio ai miti della rivoluzione. Andava controcorrente, così come ha fatto fino all’ultimo, forte di una cultura empirica e scientista. I suoi interventi sono sempre stati incardinati su una mole di dati oggettivi, calcoli matematici, riferimenti internazionali, che li hanno resi difficilmente contestabili. Basti pensare alle sue proiezioni sugli effetti disastrosi delle rate di pagamento degli interessi sul nostro debito pubblico così come previsti dal Fiscal Compact. Due volte assurdi: per l’impossibilità materiale di ripianare il debito stesso, e per la povertà che si infliggerebbe su due generazioni di italiani.
L’autore di quell’insuperato, monumentale classico che è il “Dizionario di Sociologia” della Utet, che fa il paio col “Dizionario di Politica” di Bobbio-Matteucci, non è uomo che si lasci imprigionare in una dimensione polemica contingente. Il suo distacco dalla corrente maggioritaria della sinistra italiana, che da ultimo lo ha portato a farsi promotore della Lista Tsipras dopo aver dichiarato il suo voto per Sel, segnala il suo rammarico profondo per l’abbandono di una visione riformista imperniata sulla centralità del lavoro.
Ma il retroterra di questo distacco, vissuto con amarezza, lo troviamo in decenni di ricerche dedicate alla fabbrica e più in generale all’impresa come luogo d’incontro fra spirito imprenditoriale, tecnica organizzativa, intelligenza artificiale, creatività e fatica del lavoratore. In definitiva, Luciano Gallino è rimasto profondamente olivettiano. Nell’intervista da lui rilasciata nel 2012 a “Il Mulino” tornano con insistenza i concetti di “comunità” e di “restituzione”. La fabbrica chiede molto in termini di fatica, intelligenza, tempo, e pertanto ha il dovere di restituire molto.
Il sociologo che mai simpatizzò per le teorie sovversive del rifiuto del lavoro né per il sindacalismo d’assalto –prima di approdare a “La Repubblica” fu a lungo editorialista del giornale della Fiat, “La Stampa- con la medesima severità ha denunciato la mortificazione della cultura imprenditoriale. Ha percepito una vera e propria degenerazione nello scriteriato allargarsi della forbice delle retribuzioni. All’Olivetti di Adriano, ma anche alla Fiat di Valletta, il capo-azienda percepiva compensi venti volte superiori alla media del salario operaio. Gli emolumenti oggi schizzati a 3-400 volte la paga media sono, agli occhi di Gallino, il sintomo di una degenerazione nefasta per il sistema economico oltre che per le relazioni sociali. A uscirne stravolto è lo stesso senso comune intorno alla realtà del lavoro: “E’ passata l’idea secondo cui è il lavoratore che deve sentirsi in debito perché ha un lavoro”.
Lo sguardo dissacrante che a partire dalla crisi finanziaria del 2008 Luciano Gallino ha saputo contrapporre ai dogmi del liberismo imperante, trova dunque solide basi teoriche nel suo insegnamento di una vita. Fu sempre generoso con chi gli chiedeva aiuto per le sue ricerche, proprio perché detestava la faciloneria.
I suoi saggi sulla rivoluzione informatica, la mente umana e l’intelligenza artificiale, gli effetti dell’industrializzazione sulla società circostante, la formazione professionale, traggono alimento dall’idea riformista di un’impresa responsabile, nella quale gli azionisti non si riducono a massimizza tori del profitto ma convivono armoniosamente con i lavoratori, le famiglie, l’ambiente, i servizi sociali circostanti.
E’ in questo spirito che Luciano Gallino ha voluto ripubblicare –uscirà prossimamente da Einaudi- il libro-intervista scritto con il suo allievo Paolo Ceri, dedicato all’esperienza vissuta in Olivetti. Si intitola, non a caso, “L’impresa responsabile”.

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