Lerner e Manconi, un intervento su Roberto Delera e la solitudine degli ebrei di sinistra.

domenica, 27 dicembre 2015

In questi giorni difficilissimi per la sinistra israeliana, vi propongo la lettura di questa introduzione da me scritta con Luigi Manconi al libro di un caro amico scomparso il 22 maggio 2015, Roberto Delera. Si tratta della sua tesi di laurea sulla vicenda tormentata della sinistra ebraica in Italia, e non solo.

Il richiamo malinconico alla solitudine che Roberto Delera ha voluto concedersi nel titolo del suo saggio sugli ebrei di sinistra in Italia, esprime un sottinteso ma inequivocabile legame sentimentale. L’autore, per indole e autodisciplina stilistica, non si permetterà in corso d’opera alcuna deroga rispetto all’asciuttezza di un meticoloso percorso storico. Eppure, è la narrazione stessa – un susseguirsi di ritratti inediti, scelte di vita drammatiche, riflessioni teoriche sottratte all’oblio negli archivi – che lascia trasparire l’emozione del militante politico inappagato. Quando scrive la sua tesi di laurea Roberto è ormai un uomo maturo e un giornalista affermato – non ne ha certo bisogno per legittimarsi nel suo ambito professionale – ma dentro alla compostezza del testo non è difficile cogliere la tensione introspettiva che lo anima. Quasi che egli vivesse un moto di identificazione con le biografie tormentate che riporta alla luce. Mettiamola così: l’autore proviene da un’esperienza politica di minoranza nella nuova sinistra italiana segnata da un senso di sconfitta e da contraddizioni irrisolte. Imbattendosi nella vicenda degli ebrei di sinistra che rivendicavano il loro essere parte di un movimento di emancipazione più generale, senza voler rinnegare la loro specifica impronta, vi ritrova implicazioni a lui prossime. Una minoranza, quella ebraica, non solo connotata da vicissitudini storiche incancellabili, ma anche eternamente lacerata dall’antinomia fra universalismo e salvaguardia della propria identità. Partecipe di una cittadinanza comune acquisita con fatica, ma senza voler rinunciare alla biblica designazione che ha imposto all’ebraismo di viversi come “spirito critico” dell’umanità. Certo, l’interesse di Delera è nutrito anche da decisivi fattori di natura personale: il matrimonio con una donna ebrea, la generazione e l’educazione di un figlio ebreo. Ma, di per sé, questo non basterebbe e, in ogni caso, la sua invincibile riservatezza ci consente solo di intuire questo riferimento biografico. C’è di più, dunque, ovvero l’acuta sensibilità manifestata dall’autore nei riguardi della cultura della differenza; nella consapevolezza che l’esperienza delle minoranze costituisce una linfa vitale per società che aspirino a mantenersi davvero libere. Un’esperienza da alimentare e proteggere, nella sua preziosa fragilità. Pur conservando un laico distacco dalla dimensione spirituale e religiosa dell’ebraismo, l’autore è attratto dalla tenacia di quei vincoli d’appartenenza che non si lasciano ridurre a reliquie della storia. E invece continuamente riaffiorano, scontrandosi con le vicende storiche che pretenderebbero di estirparle, e disseminando la realtà circostante di sempre nuove (ma al tempo stesso antiche) variabili scomode. Riassumibili, da ultimo, nell’interrogativo: si può stare a sinistra e amare Israele, perfino quando da entrambe le parti si viene raggiunti da accuse di tradimento? La solitudine degli ebrei di sinistra, dunque. Non così dissimile dalla solitudine avvertita dai militanti della sua generazione che, come lui, non hanno sbrigativamente voltato le spalle ai valori in cui avevano creduto. Per addentrarsi nei dilemmi esistenziali di queste storie di solitudine, Delera non esita ad allargare il suo sguardo ben oltre il trentennio intercorso fra la guerra dei sei giorni e l’attentato a Rabin, al quale pure fa riferimento il titolo che egli ha scelto, probabilmente perché questo è il periodo storico in cui massimamente si acuisce la contrapposizione fra Israele e sinistra mondiale. La ricerca sulla sinistra ebraica in Italia (ma non solo: si vedano l’importanza giustamente assegnata a un personaggio come Isaac Deutscher, “L’ebreo non ebreo”; e i frequenti riferimenti alle politiche antisemite dell’Unione Sovietica), si dipana con un respiro più vasto. Muove dal diciannovesimo secolo, ovvero dai sommovimenti sociali e nazionalistici in cui si forgiarono il socialismo scientifico dell’ebreo Karl Marx e il progetto sionista di Theodor Herzl. Perfino la contraddizione impersonata dall’“universalista” Marx in lotta con le sue origini, rimarrà come una ferita non cicatrizzata. Ma, poi, è la tardiva emancipazione degli ebrei italiani, rimasti oggetto di una ostilità di matrice clericale dentro la controversia fra Stato e Chiesa, a rivelarsi conquista solo provvisoria. Il patriottismo infranto degli ebrei italiani si configura come un dramma speciale dentro il dramma più generale dell’antisemitismo di destra pianificato fino alla deportazione e allo sterminio. L’emancipazione revocata attraverso le leggi razziali determinerà un trauma talmente doloroso che, nei primi anni del dopoguerra, fra i portavoce delle comunità ebraiche prevarrà la tentazione di minimizzarlo: non solo perché i sopravvissuti aspirano a un futuro pacificato, ma anche per il forte imbarazzo dovuto alla mal riposta fiducia nel fascismo protrattasi fino al 1938. I pochi sionisti italiani furono isolati e perfino denunciati dagli organismi comunitari: che bisogno c’era di emigrare in Palestina, manifestando così slealtà rispetto alla patria italiana? Delera ricostruisce la vicenda degli ebrei antifascisti che aderiranno alla Resistenza pagando un alto tributo di sangue. Solo pochissimi fra loro sceglieranno invece il distacco dall’Italia rappresentato dalla scelta sionista. Un distacco peraltro tormentato e solo parziale, come dimostra la tragica sorte di Enzo Sereni. E come testimonia il ritratto fornitoci da Delera di una personalità sottovalutata ma affascinante, sempre in bilico fra le sue due patrie, perennemente critico in pari misura con la “sua” sinistra e con la politica israeliana: il musicologo Leo Levi. Quando infine le dinamiche della guerra fredda e del panarabismo fanno esplodere la contrapposizione fra sinistra comunista e Stato d’Israele, luminosa prevale su tutte la figura libera e intransigente di Umberto Terracini, fondatore del partito, detenuto nelle carceri fasciste, comandante partigiano, presidente dell’Assemblea Costituente, ebreo orgoglioso e militante vicino ai nuovi movimenti giovanili della sinistra. La coerenza con cui Terracini sceglie di identificarsi col destino d’Israele, riconoscendovi anche –lui che sionista non fu mai- una matrice di socialismo comunitario, è in qualche modo la sintesi più alta della contraddizione narrata da Delera, con trasparente ammirazione. Una sensibilità tormentata che ritroviamo, in forme diverse, nell’altro gigante della cultura ebraica laica e di sinistra italiana: Primo Levi. Toccherà alle generazioni successive, ebrei nati nel dopoguerra e impegnati nella nuova sinistra, ma pur sempre figli delle vittime delle leggi razziali e intensamente legati al destino di chi è emigrato in Israele, farsi portatori della medesima solitudine. A loro toccherà fare i conti con la riprovazione crescente della comunità di appartenenza. L’originalità del contributo che l’ebraismo italiano può recare nelle scelte pubbliche di un paese dov’è radicato da due millenni, diviene fattore secondario rispetto alle dinamiche del conflitto mediorientale. La rivendicazione di autonomia da parte degli ebrei “rimasti” a sinistra in taluni casi estremi viene perfino demonizzata. Qualcuno tra loro verrà additato come nemico della comunità, spingendo la critica fino al limite dell’ostracismo (è il caso di un artista militante come Moni Ovadia che pure è stato artefice di una felice divulgazione della cultura yiddish in Italia).
L’ebraismo istituzionale, forte anche di inedite sponde politiche a destra, obbedisce all’assioma per cui la politica del governo israeliano va sempre e comunque sostenuta senza consentirsi alcuno spazio di autonomia critica. Il protrarsi per quasi mezzo secolo dell’occupazione dei territori palestinesi conquistati nel 1967, l’interruzione per mano omicida del progetto di pacificazione avviato da Yitzhak Rabin, le sanguinose intifade palestinesi e il terrorismo arabo, renderanno sempre più acuto negli ebrei di sinistra il sentimento di avere perduto un’occasione storica. Il sionismo che già nel corso della prima metà del Novecento aveva dovuto far ricorso a metodi brutali per sopravvivere e per edificare il suo Stato, subisce metamorfosi involutive dentro a un contesto mediorientale di imbarbarimento del conflitto. In tale quadro, sembra divenire imprescindibile il continuo richiamo proveniente da Israele a recidere qualsiasi altro legame d’appartenenza. Ma non tutti vi si adeguano. Roberto Delera inquadra benissimo questo passaggio, e ne soffre. Comprende, come pochi altri hanno saputo fare, la lacerazione provata dagli ebrei di sinistra. Ci consegna qualcosa di più di un resoconto esemplare. Tiene viva una speranza, da par suo. Gliene siamo grati.
Gad Lerner Luigi Manconi

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