Immaginate di essere fuggiti da una guerra pagando migliaia di euro ai trafficanti , confidando di raggiungere parenti o amici nei paesi tranquilli del nord Europa dov’è ragionevole sperare di rifarsi una vita sopportabile. Avete rischiato la vita, portate il peso di lutti e umiliazioni inenarrabili. Sbarcate su un’isoletta greca da dove le autorità vi trasbordano sulla terraferma affinché possiate proseguire il viaggio lungo la rotta balcanica, verso la Germania o la Scandinavia. A Idomeni, sul confine con la Macedonia, vi fermano e vi ammucchiano in un campo profughi sovraffollato, sotto le intemperie dell’inverno che da queste parti è assai rigido. Cominciano a dirvi: passano gli iracheni e i siriani, gli afghani non più. Poi diventa: ne passano solo 80 al giorno. Poi, una notte, ne passano trecento, ma la mattina dopo di nuovo stop. E la Grecia si arrangi, se a Idomeni sono diventati troppe migliaia li riporti indietro, si trasformi lei stessa in un grande campo profughi.
Come non dare ragione agli uomini che ieri si sono ribellati abbattendo le cancellate e le reti di filo spinato?
Lo stesso a Calais, dove le autorità che hanno ordinato lo sgombero della cosiddetta “Giungla”, sapendo che in alternativa possono offrire ai profughi solo di rinchiuderli in veri e propri campi di concentramento, a metà dell’opera si sono vergognate di fronte alla legittima resistenza di quegli uomini liberi.
L’Europa sembra capace solo di chiuderli in gabbia. Paga la Turchia illudendosi che Ankara possa/voglia “chiudere il rubinetto”. Li osserviamo attoniti, i giornali neanche commentano, da quanto è l’imbarazzo. Noi fatichiamo a esprimergli solidarietà. Loro hanno tutte le ragioni di ribellarsi.