“La Repubblica” di Eugenio Scalfari tra libertà ed eguaglianza (con un piccolo punto interrogativo)

domenica, 6 marzo 2016

E’ davvero bello e significativo l’editoriale con cui Eugenio Scalfari commenta su “La Repubblica” di domenica 6 marzo 2016 il riassetto azionario che vede coinvolto da protagonista il quotidiano da lui fondato. Dopo ampia disamina storica delle differenze culturali fra “La Repubblica” e il “Corriere della Sera”, Scalfari sintetizza in due parole-chiave il patrimonio ideale e civile della sua creatura: “libertà ed eguaglianza”, declinate a seconda delle diverse fasi, “purché l’altro valore sia sempre presente e mai dimenticato”.
A proposito dell’alleanza stipulata nei giorni scorsi con la famiglia Elkann-Agnelli, che lascerà il “Corriere” per conferire i suoi giornali dentro il Gruppo Espresso, Scalfari scrive: “Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale”.
Trovandomi in sintonia con queste parole impegnative, vorrei fare a Eugenio due (simbolici) regali accompagnati da punto interrogativo. Il primo è la fotografia in cui è ritratto assieme al mio rimpianto maestro Giorgio Bocca. Chissà come l’avrebbe presa, quel nostro amico testone piemontese, la novità di questi giorni?
Il secondo omaggio -si fa per dire- è il sottostante mio articolo uscito come editoriale sulla prima pagine di “La Repubblica” qualche anno fa, il 26 giugno 2010. Si intitolava “Il profitto e l’operaio”. A proposito di libertà ed eguaglianza, che dici Eugenio, come si tratterà l’argomento in futuro?

IL PROFITTO E L’OPERAIO

IL primo ministro del governo italiano ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11.490 (undicimilaquattrocentonovanta) volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco. Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il 63,3% dell’azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato l’anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per l’appunto a 11.490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di Pomigliano che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione, portando a casa circa 11.000 (undicimila) euro lordi. In altri termini, la persona fisica del nostro primo ministro ha guadagnato nel 2009 due volte (e più) il monte salari dell’intero stabilimento al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le relazioni sindacali del paese.

Nello stesso periodo, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano. Tale cifra comprende il bonus che la Fiat ha deciso di attribuirgli per il 2009, mentre l’attività svolta dal manager italo-canadese negli Stati Uniti per Chrysler è stata fornita a titolo gratuito.

Credo non sia più possibile discutere di giustizia sociale e di redistribuzione del reddito, ma anche di economia e finanza, prescindendo da queste nude cifre. Da una ventina d’anni la parola egualitarismo è proibita nel dibattito pubblico, demonizzata alla stregua di un’ideologia totalitaria. Ma nel frattempo imponenti quote della ricchezza nazionale sono state dirottate dal lavoro dipendente a vantaggio dei profitti, esasperando una disuguaglianza di reddito senza precedenti storici.

Questo imponente spostamento di punti del Pil dai salari al capitale non ha certo reso più competitiva l’economia italiana come invece prometteva. Semmai fotografa, con sintesi brutale, la sconfitta di una sinistra la cui ragione sociale, per oltre un secolo, si identificò con il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, primi fra tutti gli operai. Pervenuta, sia pure per brevi periodi, al governo del paese, la classe dirigente della sinistra si è legittimata attraverso l’accettazione della cultura di mercato ma ha finito per confondersi in larga misura nell’establishment italiano da cui voleva essere accettata, tollerandone in cambio i vizi, sposandone talvolta i comportamenti.

Se il coefficiente di Gini, cioè l’indicatore statistico con cui gli economisti cercano di misurare il tasso di disuguaglianza sociale di un paese, colloca ormai l’Italia ai gradini più bassi dell’Ocse, con un’accelerazione costante a partire dai primi anni Novanta, è doveroso ricordare che il lavoro dipendente non ha subito solo decurtazioni proporzionali di reddito. Chi prometteva “qualità totale” nel ciclo produttivo ha perso quote di mercato anche a seguito di eccessiva difettosità. La fabbrica automatica che doveva liberare il lavoro manuale dalla fatica fisica e dal pericolo di infortuni, in cambio di normative più flessibili, si è rivelata una trovata propagandistica.

Spetterà agli storici di domani capire come mai l’incremento delle disuguaglianze sia parso così a lungo giustificabile, o comunque accettabile, a chi le subiva. Il fallimento del comunismo ha reso improponibile la visione messianica della classe operaia come nucleo di un’emancipazione scaturita dall’interno del ciclo produttivo, rivoluzionandone le relazioni gerarchiche e i parametri di retribuzione. Ma nel frattempo sospingeva i ceti meno abbienti ad affidare il proprio destino nelle mani di leadership territoriali populiste, non importa se guidate da imprenditori che perseguivano l’arricchimento personale, ché anzi era proprio il loro successo a figurare come l’unico modello di comportamento imitabile. A sua volta un sindacalismo disarmato riusciva a proporsi solo come tutela locale, se necessario in contrapposizione con altri stabilimenti italiani o più spesso con i lavoratori dei paesi emergenti.

La speranza fallace che l’arricchimento di pochi generasse maggior benessere per tutti ha consentito che la presa di potere dei manager divaricasse la forbice delle retribuzioni, elevando in breve tempo gli stipendi dirigenziali: da venti o trenta volte la media di un salario operaio, a centinaia di volte. I profitti realizzati tramite la speculazione finanziaria globale, hanno completato l’opera.

Il paradosso che viviamo oggi è che la rabbia sociale rischia di finire appannaggio della demagogia di destra, mentre la sinistra ammutolisce vittima delle sue inadempienze. Chi ha teorizzato la difesa localistica del proprio territorio dalle insidie della globalizzazione, naturalmente, propone alle masse una visione strabica delle disuguaglianze. Denuncia come eccessivi i redditi di categorie molto visibili ma sparute come i calciatori e i personaggi dello spettacolo. Oppure addita al pubblico ludibrio di volta in volta i suoi avversari simbolici, come gli alti magistrati e i dirigenti ministeriali. Ma si guarda bene dal prendersela con i redditi da capitale, con le rendite finanziarie, con i compensi dei manager che appartengono al suo sistema di potere. La piramide sociale, nella visione della destra, può venire scossa dal terremoto della crisi, ma per uscirne ancora più verticale.

È prevedibile che nei prossimi anni questo malessere genererà un pensiero radicale e una reazione estremista anche nell’ambito della sinistra, impreparata a confrontarsi con le regole della finanza, con la riforma dei rapporti di lavoro, con la crisi del welfare. La morte del comunismo non elimina in eterno la spinta antagonista, con i suoi aneliti di giustizia e il suo inevitabile contorno di ambiguità.
Per il momento sarebbe bene che i dirigenti del Pd affascinati dallo stile Marchionne, colti alla sprovvista dalla minoritaria ma elevata quota di opposizione espressa dai lavoratori di Pomigliano a un accordo stravolgente le condizioni di lavoro, cominciassero a riflettere. Assumendo il tema della disuguaglianza sociale come prioritario nell’agenda di una sinistra moderna degna delle sue origini.

(26 giugno 2010)

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