Franco Monaco: io, ulivista della prima ora, sulla scissione del Pd dò ragione a D’Alema

martedì, 15 marzo 2016

Vi propongo questa riflessione del deputato Franco Monaco, uscita su “Il Fatto” di martedì 15 marzo 2016.

Lo ha evocato Renzi a modo suo. Per quindici anni, a partire da metà anni novanta, cioè dalla nascita dell’Ulivo, la vicenda del centrosinistra è stata attraversata dal confronto tra prodian-ulivisti e dalemiani. Cioè tra due diverse visioni del sistema politico italiano e, in esso, dell’assetto del centrosinistra. Con o senza trattino (lo rammento, pur consapevole dell’ironia che suscitò e tuttora suscita tale rappresentazione della disputa per il suo sapore politicista e bizantino). Diciamo meglio: tra una visione di stampo maggioritario e bipolare del sistema politico e una a base proporzionalista e parlamentarista di esso; tra l’idea (di Prodi) che i cittadini-elettori, con il loro voto, potessero scegliere non solo la rappresentanza parlamentare ma anche i governi e la loro guida e chi (D’Alema), al modo del primo tempo della Repubblica, sosteneva che gli elettori dovessero votare il proprio partito e solo poi, a esito del voto acquisito, attraverso una negoziazione tra i partiti, si dovessero formare coalizioni di maggiorana a sostegno del governo possibile. Il primo schema, a differenza del secondo, faceva perno sulla convinzione della profonda cesura rappresentata dal collasso del precedente sistema politico, dei suoi attori o di ciò che residuava di essi e dunque sull’esigenza di dare vita a partiti davvero nuovi e possibilmente grandi, contrassegnati da una marcata discontinuità nella cultura e nei gruppi dirigenti. A cominciare dall’Ulivo-PD.
Oggi un po’ tutti “si raccontano” come da sempre convinti assertori del primo modello, quello risultato alla fine vincente. In realtà, chi ha vissuto dall’interno quel quindicennio sa bene che le cose non sono andate linearmente così. Semmai il contrario. Per lungo tempo, fummo pochi e isolati a propugnare quell’approdo: il partito prodiano dell’Ulivo. Contro uno schieramento largo e agguerrito costituito dagli eredi dei due grandi partiti cardine del vecchio sistema politico: Dc e soprattutto Pci, per paradosso (ma lo si potrebbe spiegare) il solo partito strutturato della prima Repubblica sopravvissuto al tragico fallimento epocale dell’ideologia e dei regimi comunisti. Uno schieramento di “resistenti al cambiamento” caparbiamente arroccati a difesa delle residue rendite di posizione cui si devono da un lato il grande ritardo nell’approdo al PD, dall’altro le sconfitte dell’Ulivo e, più concretamente, la caduta dei governi Prodi. Soprattutto il Prodi 1, con il trauma della sua precoce crisi del 1998, utile (!) al fine appunto di inibire il consolidamento del partito dell’Ulivo guidato dal Professore, di cui già era maturo il tempo. La vera e unica occasione perduta, un treno che non è passato più (quando anche Veltroni, che oggi la racconta diversamente, mollò Prodi e l’Ulivo per la segreteria Ds).
Questa sintetica ricostruzione dovrebbe mettere al riparo un vecchio prodiano-ulivista come me dal sospetto di simpatie dalemiane. E tuttavia dissento da chi ha sbrigativamente liquidato la recente, aspra intervista di D’Alema come il mero prodotto del risentimento. Può darsi vi sia anche questo. Ma egli ha posto problemi oggettivi, chiamandoli con il loro nome. Esemplifico: la mutazione identitaria del PD è un fatto, non una tendenza; è in atto uno scisma silenzioso dal PD di elettori e militanti di sinistra, quello che si usa chiamare una rottura sentimentale con il popolo di sinistra; la configurazione del PD è quella di un partito elettorale del leader anziché organismo collettivo animato da una dinamica partecipativa interna e diffusa sul territorio; la maggioranza di governo si è già allargata organicamente a persone e gruppi in fuga da Berlusconi; la narrazione renziana eccede in propaganda, in contrasto con il costume che fu dell’Ulivo, con l’impegno a “dire la verità agli italiani” in dichiarata alternativa al berlusconismo; il premier si è circondato di un gruppo dirigente mediocre e talora arrogante, non disdegnando di premiare fenomeni di trasformismo. Lungo questa china, è plausibile e persino auspicabile la separazione dal PD renziano di una formazione politica di sinistra non testimoniale ma riformatrice e di governo.
Si può eccepire circa l’asprezza dei toni dalemiani. Ma, a mio avviso, nei suoi giudizi c’è più verità che non nelle voci della cosiddetta minoranza interna, per altro divisa. La quale schizofrenicamente denuncia con parole forti le medesime patologie, persino dichiarandosi pronta a negare la fiducia al governo, salvo poi balbettare e concludere contraddittoriamente con formule del tipo “scissione mai” o “il partito siamo noi”. Anche quando i vertici neppure si degnano di affacciarsi alla loro convention. Una schizofrenia che la logora e la delegittima.
Da vecchio ulivista, fiero avversario del trattino all’epoca propugnato da D’Alema, oggi mi sento di proporlo, con animo sereno ma, insieme, più risoluto: ci si separi senza strepiti, senza incattivire a dismisura i rapporti personali e politici, così da non pregiudicare la possibilità – se ve ne saranno le condizioni – di siglare poi una alleanza di centro-sinistra su un programma negoziato. Costringendo così Renzi a correggere l’Italicum, reintroducendo il premio alla coalizione, anziché alla lista. La mia conversione al trattino è presto spiegata: le pur diverse visioni del centrosinistra dei vari Prodi, D’Alema, Veltroni avevano tuttavia una cosa in comune, quella di situarsi chiaramente nella metà campo riformista, di non spingersi ad occupare il campo avverso, inibendo altresì lo sviluppo di un centrodestra democratico e di governo. Perché nell’ambizioso progetto originario dell’Ulivo figurava l’obiettivo storico e di sistema di dare compimento alla democrazia italiana come competitiva e dell’alternanza. L’opposto del ritorno al partito unico di governo che ingessò a lungo la democrazia italiana. Un altro paradosso: il campione dei novatori/rottamatori che ci sta riportando indietro alla casella numero uno.
Franco Monaco

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