Poco importa se Fayez al-Sarraj sia sbarcato sulla costa libica da barche e gommoni forniti direttamente dall’Italia, o solo “protetti” nel loro trasbordo da Tunisi. Il fatto stesso che al-Sarraj sia stato accolto a fucilate e che cioè la sua legittimazione internazionale non gli garantisca affatto di riunificare una Libia frantumata, inesistente, ha il chiaro significato di un nostro prossimo coinvolgimento diretto. Rinviato finchè è stato possibile, ma inevitabile è un impegno dell’Italia nel ginepraio nordafricano. Per noi è vitale salvaguardare la fragile democrazia tunisina dalla minaccia jihadista. Garantire la continuità del rifornimento energetico attraverso il gasdotto sottomarino che da Mellitah raggiunge Gela. Difendere i pozzi e i depositi petroliferi dell’Eni. Evitare che il contagio della guerra civile possa minare la precaria stabilità di un paese come l’Algeria (già al centro di un prolungato sanguinoso assalto fondamentalista negli anni novanta). E infine scongiurare un monopolio territoriale dell’Is sulle coste nordafricane da cui partono le rotte dei migranti verso l’Europa.
L’elenco degli interessi vitali che costringono l’Italia a interrompere un lungo, comprensibile periodo di esitazioni, potrebbe continuare a lungo. Il nostro destino è legato a quello della Libia, al di là di come essa si chiamerà in futuro (servono a poco le odierne paternali storiche di Paolo Scaroni sul futuro separato tra Cirenaica e Tripolitania, ce n’eravamo già accorti da soli, di questa deriva). Sarà lunga e complicata, la nostra inevitabile guerra di Libia. Suppongo che il governo Renzi intenda dissimularla, puntando a fare in modo che l’italiano medio non debba accorgersi che la stiamo combattendo. Temo che sarà difficile.