Idomeni: la grande fuga dei profughi è destinata a trasformarsi anche in movimento di lotta

domenica, 10 aprile 2016

Questo articolo è uscito su Nigrizia.

La grande fuga dalle zone di guerra verso l’Europa non è stato ancora considerata a sufficienza nella sua veste di conflitto sociale e di inedito movimento per i diritti civili. Ma intanto nella rete del volontariato che presta il soccorso umanitario agli sfollati è inevitabile che si apra quel dibattito sulle forme di lotta che da sempre interpella chi si batte per una causa di giustizia.
Fino a che punto è necessario ricorrere a azioni illegali “di avanguardia”, e quando invece esse si rivelano controproducenti?
Nei primi giorni dello scorso mese di marzo i giovani militanti di NoBorder che già avevano organizzato il presidio permanente dei migranti sugli scogli dei Balzi Rossi di Ventimiglia, hanno ideato al confine tra la Grecia e la Macedonia un’iniziativa tanto spettacolare quanto controversa: il guado di un corso d’acqua limitrofo al campo di Idomeni, dove sono stati rinchiusi a migliaia i profughi che già avevano attraversato il mar Egeo aspirando a raggiungere l’Europa settentrionale. Come è noto, dopo aver tagliato con le cesoie alcune barriere di filo spinato, gli attivisti di NoBorder hanno teso delle corde fra le due sponde del fiume per favorire il passaggio di svariate centinaia di disperati. Nel corso della traversata, tre persone sono annegate. E dopo poche ore la polizia macedone ha fermato e trasferito di nuovo in Grecia tutti coloro che avevano passato il confine.
Le principali organizzazioni umanitarie hanno criticato l’iniziativa di NoBorder, denunciandola come velleitaria e nociva, nonostante il fortissimo impatto mediatico dei filmati e delle fotografie che hanno fatto il giro del mondo sugli schermi delle tv e dei social network.
Nessuno può eludere la gravità del sacrificio di vite umane e il danno personale arrecato ai profughi schedati e ricacciati indietro. Eppure, di fronte all’inciviltà di quella frontiera sigillata, allo scandalo che essa rappresenta, è ragionevole prevedere che azioni simili si ripeteranno. C’è solo da augurarsi che esse si mantengano dentro i limiti, fin qui rispettati, della nonviolenza. Ma, purtroppo, neanche questo è scontato.
Confesso di aver provato un moto d’ammirazione nei confronti dei militanti di NoBorder. E’ difficile negare la generosità del loro intento, e poco importa se si tratta di anarchici o autonomi mossi da intenzioni politiche rivoluzionarie: sono lì, al fianco di gente che soffre e rivendica i suoi giusti diritti alla libertà di movimento e alla protezione umanitaria garantita (solo in teoria) dal diritto internazionale.
La storia ci insegna che tutti i movimenti popolari che si scontrano contro l’ottusità degli apparati statali, prima o poi sono costretti a oltrepassare i limiti di una legalità ingiusta, pagandone inevitabili costi umani. L’esperienza ci insegna altresì che la loro lotta sarà tanto più efficace fintanto che saprà esprimersi con modalità nonviolente, disarmate. Servono saggezza e fantasia. Il popolo dei fuggiaschi è per sua natura pacifico, anche perché ha già conosciuto gli orrori della guerra. Ma ribellarsi al sopruso rimane un diritto inalienabile.

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