La massima eleganza cui aspirano i ragazzini di tutto il mondo povero è indossare le magliette delle squadre di calcio più quotate, naturalmente in versione taroccata, se no costerebbero troppo. Chiunque abbia visitato una periferia urbana o un campo profughi dall’Africa al Medio Oriente conosce quell’incrociarsi sorridente degli sguardi quando scopri di avere in comune i colori e i campioni che giocano lontano, a Madrid piuttosto che a Manchester, a Barcellona o a Milano.
La sfida alla globalizzazione lanciata dal fanatismo jihadista comporta inevitabilmente anche questa, che è la più impopolare delle contrapposizioni: educare i musulmani a odiare il calcio come prodotto impuro, cioè “haram”, e gli undici protagonisti del team che ami come idoli di un politeismo pagano.
Probbilmente la strage di diciotto sostenitori del Real Madrid perpetrata dai tagliagole dell’Is venerdì nella sede del loro club a Balad, in Iraq, ha altre motivazioni: erano sciiti, e come tali considerati nemici mortali da eliminare. Ma resterà simbolica, così come la fascia di lutto al braccio con cui giocheranno oggi i calciatori allo stadio Santiago Bernabeu, perché è proprio quella fratellanza maschile nella passione calcistica –un succedaneo dell’utopia della fratellanza universale- che i jihadisti riconoscono il loro nemico più pericoloso. Quello che alla fine li sconfiggerà: il nostro riconoscerci umani.