Ho letto con emozione l’ultimo bellissimo libro di Wlodek Goldkorn, “Il bambino nella neve” (Feltrinelli), non solo perchè si tratta dell’opera più intima e impegnativa di un amico al cui tragitto esistenziale mi sento affratellato. Figlio di ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah che avevano deciso di restare a vivere nel loro paese e che invece dovettero emigrare in Israele nel 1968, di fatto espulsi dal regime comunista con una valigia e cinque dollari a testa, Wlodek ha trovato le parole per raccontarci le molteplici conseguenze di quello strappo perpetrato nel cuore dell’Europa. In cui pure è ritornato a vivere, trovando in Italia una terra capace di ospitare la sua anima tormentata e cosmopolita.
Straordinarie sono le pagine dedicate all’infanzia trascorsa a Katowice, non lontano da Auschwitz, nei casermoni abbandonati nel 1945 dagli occupanti nazisti, col mobilio e le stoviglie ancora marchiati dalle svastiche. Custodire la memoria degli sterminati e perpetuare sotto il comunismo sovietico una cultura yiddish depurata da anacronismi superstiziosi, si rivelò una sfida improba. Eppure, indispensabile. Perchè l’ebraismo vive nel tempo d’attesa del Messia e non solo nello spazio proprietario di una terra idolatrata, sia essa pure la terra d’Israele da cui Wlodek si sentirà nuovamente respinto. Non a caso si sceglierà come maestro di vita Marek Edelman, il vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia divenuto cardiochirurgo e testimone del dissenso antiregime. La sua è un’adesione postuma al Bund, il partito socialista ebraico che contrastava il progetto sionista, considerando prioritaria l’emancipazione “qui e ora” degli ebrei nella terra in cui già vivevano da secoli. Impegnati a custodire le tombe e presidiare i luoghi di uno sterminio mai visto prima, ma nello stesso tempo a perpetuare l’anelito di redenzione incarnatosi nell’impegno per la giustizia sociale e i diritti universali.
In altre parole, raccontando le vicissitudini della sua famiglia nelle asperità di un dopoguerra tutt’altro che pacificato, Wlodek Goldkorn mantiene vivo lo spirito di un ebraismo che non può accettare di ricondursi per intero nel destino del sionismo. Tanto più oggi, quando Israele soffre di un’involuzione particolaristica che ne sta mettendo a repentaglio la natura democratica e distorce a fini politici i suoi millenari insegnamenti. Wlodek è un prezioso testimone dell’ebraismo. Laico, non credente, eppure messianico. Con questo libro, corredato dalle belle fotografie di Neige De Benedetti che l’ha accompagnato in una sorta di pellegrinaggio nell’indicibile dei campi di sterminio, si rivela essere anche uno scrittore di vaglia.
“Il bambino nella neve” è un libro importante, colma un buco nero. L’esperienza vissuta in prima persona da persone sensibili e colte come il suo autore, ha un valore inestimabile che durerà nel tempo.