Riporto qui di seguito uno scambio epistolare con il direttore de “Il Foglio”, Claudio Cerasa. Ma non prima di applaudire l’opportuna piroetta del suo giornale, tra i più attenti alle dinamiche della politica internazionale, dopo l’attentato di Istanbul. Nel mentre mi fa il predicozzo in ultima pagina per mie asserite simpatie nei confronti dei Fratelli Musulmani, “Il Foglio” sottolinea in prima e in terza pagina quanto sia importante e necessario -sia pure tardivo- l’impegno della Turchia di Erdogan nella guerra contro il sedicente Stato Islamico. Basterà una registratina agli ingranaggi e, fra un paio di giorni, Cerasa & co si accorgeranno che Erdogan svolge da alcuni anni il ruolo di protettore della Fratellanza. Non diventano stinchi di santo sol perchè combattono l’Is. Però evolvono, cambiano, ed è nostro interesse accompagnare queste dinamiche interne al mondo islamico anzichè rimanere lì fermi impettiti a sbraitare. Ma ecco la mia lettera e la risposta di Cerasa.
Al direttore – Vorrei potermi compiacere della meticolosità archivistica con cui Giulio Meotti scandaglia da anni il mio lavoro, il mio abbigliamento e perfino la mia residenza. Non fa eccezione il cordiale ritratto che mi ha dedicato ieri sul Foglio (“Lerner maestro di soumission. L’infedele vestito di tweed torna in Rai a rieducarci sull’islam. Come evitare spot ai Fratelli musulmani”). Se colgo l’occasione e approfitto della sua ospitalità non è per esporre puntuali controdeduzioni che mai scuoterebbero le certezze di Meotti, avendo egli cucito sulla mia persona l’habitus che lo ossessiona: cioè lo stereotipo dell’ebreo che odia se stesso e si offre come tramite per l’invasione del nemico islamico. Le scrivo dunque solo allo scopo di togliermi dalla scarpa un sassolino che m’infastidisce da un paio d’anni.
Mi riferisco alle pagine a me dedicate (peraltro in nobilissima compagnia, da Natalia Ginzburg a Primo Levi a Tullia Zevi, per restare solo agli italiani) nel pamphlet “Ebrei contro Israele” di Giulio Meotti dove vengo accusato di voler “dissacrare – cito testualmente – la sofferenza delle migliaia di civili israeliani assassinati dai terroristi suicidi”. Tale intendimento, che non esito a definire odioso, sarebbe comprovato da alcune frasi estrapolate dal mio libro “Scintille”, in cui descrivo il macabro indugiare di tanti servizi televisivi “sulle membra violate dei cadaveri, sulle pozze di sangue, sui feriti che urlano”, manifestando così “una morbosità con cui si celebra il dolore”, “insinuante fino a obnubilare i sensi”.
Il guaio è che, nella circostanza, l’unico obnubilato risulta essere il Meotti medesimo. Chiunque avesse la pazienza di leggere quelle mie pagine, difatti, constaterebbe che esse trattano delle televisioni arabe, e libanesi in particolare, allorquando informano il loro pubblico, con resoconti macabri, su episodi di cosiddetto “martirio”. Ben diverso è il codice deontologico dei media israeliani che mai e poi mai trasmetterebbero immagini del genere. Fuorviato dal suo pregiudizio, Meotti ha quindi letteralmente rovesciato il senso del mio scritto. Mi piace qui ricordare che dopo l’uscita del pamphlet mi telefonò l’ambasciatore d’Israele in Italia per esprimermi solidarietà e prenderne le distanze. Per quanto tardiva, mi preme che questa rettifica venga registrata, anche perché non può considerarsi un semplice qui pro quo.
Trattasi solo di una (la più grave per la mia già scarsa onorabilità) fra le tante falsificazioni di Meotti. Ma è rivelatrice di un vero e proprio metodo di lavoro: forse ispirato da Marco Travaglio, Meotti costruisce le sue argomentazioni col taglia e cuci capzioso delle citazioni. Manipola, assembla, omette. Può ricordarsi addirittura una trasmissione Rai di quasi vent’anni fa nel Palasport di Vicenza con centinaia di fedeli musulmani radunati dall’Ucoii (omettendo quel che accadde quando vi calai una gigantografia di Brigitte Bardot in bikini…), ma certo non ricorda la drammatica trasmissione in diretta che feci l’anno successivo da una piazza di Algeri con i parenti delle vittime del jihadismo (quando lui probabilmente non aveva ancora sentito nominare Osama bin Laden).
La denigrazione dell’avversario, quando si è dominati dal pregiudizio ideologico, sollecita forzature che spesso conducono all’esito penoso di prendere fischi per fiaschi. Diventa così difficile affrontare con il dovuto discernimento un tema scottante come il travaglio in corso all’interno dell’islam tradizionalista e/o integralista. La galassia dei Fratelli Musulmani, posta oggi di fronte al nuovo blocco di potere rappresentato dal Daesh, ne viene percossa e lacerata, sollecitando anche alle democrazie occidentali un approccio che vada al di là della mera demonizzazione. Temo però che non sia possibile discuterne col metodo Meotti.
Gad Lerner
P.S. In questa stagione agli abiti di tweed preferisco quelli di lino, nel vano tentativo di emulare l’irraggiungibile eleganza di Giuliano Ferrara.
Caro Lerner, il diritto di tribuna è un diritto sacrosanto e può scrivere quello che crede. Quanto alle mistificazioni, visto l’importante ruolo che lei avrà nei prossimi mesi nel nostro servizio pubblico, le suggerirei di fare attenzione. Glorificare la galassia dei Fratelli musulmani, raccontando una realtà bizzarra in cui la santa Fratellanza sarebbe assediata dall’Isis dimenticando però che la stessa Fratellanza è bandita in quanto organizzazione terroristica in Egitto, negli Emirati Arabi e persino in Arabia Saudita, è una storia alla quale lei può continuare a credere. Ma prima di dare spazio in televisione alle preziose chicche della dottrina del suo adorato Tariq Ramadan e dei suoi fratelli moderati che sognano la fine di Israele la inviterei, da ebreo quale lei è, a fare quanto meno una riflessione. Non le chiediamo di andare a raccontare nel suo programma casi di imam che anche in territorio italiano fomentano l’odio contro Israele e non le chiediamo, si figuri, di suggerire al figlio del suo amico Hamza Piccardo (Davide Piccardo, a capo del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano) di smetterla di difendere predicatori che invitano a nutrire odio verso gli ebrei (le dice qualcosa quel Tareq al Suwaidan che prima di essere cacciato dall’Italia invitava “tutte le madri della nazione islamica – non solo quelle palestinesi – a nutrire i loro figli con l’odio verso gli ebrei”?). Le chiediamo solo un piccolo sforzo. Le chiediamo quando ci racconterà le meraviglie dell’islam italiano, che sicuramente ci saranno, di fare lo stesso sforzo che spesso fa il nostro Giulio Meotti: non considerare, nella scala dei valori di ciascuna persona che si considera vicina o a una religione o a una cultura, il sentimento di odio contro gli ebrei e contro Israele come un elemento secondario sul quale si può allegramente sorvolare. E quando deciderà di parlare e magari di dar voce al suo amico Ramadan si ricordi cosa fece nel 2005 un suo collega ulivista, Luciano Caveri, allora presidente della Val d’Aosta. Il suo amato Ramadan venne invitato all’università ma Caveri bloccò la lezione. Spiegando che “l’università non può sponsorizzare l’intervento di oratori che sostengono tesi come quelle di Ramadan: contro gli ebrei, contro Israele o a sostegno della supremazia dell’islam”. “Mio padre – disse Caveri – è stato ad Auschwitz, dovrei accogliere chi sostiene che Israele va distrutto?”. Chi è che mistifica? Un caro saluto.
Claudio Cerasa