Su “Il Manifesto” del 12 luglio 2016 è uscito questo articolo dello scrittore Angelo Ferracuti, nativo di Fermo.
Quando Emmanuel Chidi Namdi è stato ucciso mi trovavo in vacanza in Croazia, e forse anche questa distanza fisica, l’impossibilità corporale di esserci, ha amplificato il mio disagio. L’idea che in una via centrale della mia piccola città dove passeggio tutti i giorni, e ho passeggiato tranquillo nei miei 56 anni di vita, sia diventato improvvisamente lo scenario di un omicidio a sfondo razzista mi ha creato un’angoscia infinita, ma anche un senso di impotente vergogna. Tornando a Fermo, ascoltando le parole del bar e i parlamenti degli amici, il telefono senza fili della piccola città, arrivando fino al luogo dell’omicidio, è come se quell’angoscia fosse diventata improvvisamente angoscia reale. Di fianco alla panchina con i fiori dove si è consumato il fattaccio, i bigliettini affettuosi, di fronte un cartello con una frase di Pier Paolo Pasolini, impressionante quanto vera: «Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre».
Cresce un’intolleranza che è iniziata qui con il pestaggio di due profughi somali, operai calzaturieri, davanti a un bar nell’indifferenza di molti, l’uccisione di due ragazzi kosovari ad opera di un mio conterraneo proprietario di 17 fucili, che poi si è suicidato in carcere, la piccola strategia della tensione orchestrata da gruppi di estrema destra contro le parrocchie (quattro attentati in pochi mesi) ree di ospitare profughi politici, e adesso l’omicidio di Emmanuel, un uomo già toccato da una storia dolorosissima come quelle di molte persone che scappano da conflitti bellici, guerre civili, persecuzioni.
In meno di due anni Fermo, nel cuore antico e mite della provincia italiana, ha prodotto queste brutalità, segno che la violenza del mondo globalizzato ormai non ha più limiti e confini, nessuno può più ritenersi al riparo, nemmeno in un luogo che ho sempre percepito nella mia vita come uno dei più sicuri, e lo era, e che nonostante questi ultimi, gravissimi fatti, è ancora un territorio civile, come lo pensava il mio amico fotografo Mario Dondero, uno che ha girato mezzo mondo e l’ha scelto come piccola patria.
Questo significa che anche dentro le mura di quella che consideravo una cittadina democratica, mite, è cresciuto un odio politico che forse non ricordo dagli anni ’70, quando gli scontri tra noi ragazzi di sinistra e quelli di destra finivano in una sberla data o presa, niente di più che qualche scaramuccia da Ragazzi della via Pal, mentre in contesti metropolitani poteva diventare tragedia. E’ quest’odio che mi interessa come scrittore ma soprattutto come cittadino, e quest’odio che voglio capire. Già il fatto che esiste e si è espresso, già il fatto di non essere riusciti a bloccarlo è una sconfitta per tutta la comunità e significa, intanto, che c’è stata un’evidente sottovalutazione del rischio e la perdita definitiva della nostra innocenza. Se poco più di cento profughi in una comunità di 40.000 persone, cioè una goccia in un mare, sono capaci di provocare tutto questo risentimento, tanto da spingere a compiere attentati a luoghi sacri e a uccidere, ci deve essere qualcosa di altro a spiegarlo.
Forse sottovalutiamo, intanto, quello che è successo in Italia, e quindi anche a Fermo, negli ultimi trent’anni di vita della Repubblica, cioè il misto di consumismo e sottocultura che hanno provocato una ulteriore mutazione antropologica, seguiti ai crolli delle ideologie novecentesche, ben peggiore di quella di cui parlava Pasolini, o una sua prosecuzione barbarica, cioè l’abbassamento del senso critico e della cultura diffusa che hanno creato l’uomo consumistico e narcisista, l’imbecille perfettino, il devoto egoista dello spreco; a questo si aggiunga la lunga stagione del berlusconismo, che ha riattivato in tutto il paese quella cultura popolare di destra sopita e di senso comune ridandole fiato e veemenza solo per bassi scopi elettorali, ma che si è diffusa e radicata nel Paese nelle sue molteplici metastasi diventando sotterraneamente egemone. Basti pensare a quotidiani come Libero, che per oltre un ventennio ha dato becchime velenoso alle pance della «laida e meschina italietta» di cui parlava Giorgio Caproni, che non è mai morta, ma è più viva che mai. Per non parlare di politici leghisti come Salvini, che corre da nord a sud dell’Italia per fare la manutenzione del razzismo, o come Calderoli: «Quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango».
A Fermo, tanto per dire, per dieci anni ha governato una giunta di centro-destra che ha alimentato questa cultura e occhieggiato agli estremisti di Casa Pound in più occasioni, come quando fu invitato in pompa magna il condannato per concorso in associazione mafiosa Marcello Dell’Utri a presentare il suo libro sulle lettere patacca di Benito Mussolini, accolto da industriali calzaturieri, giornalisti locali, politici. E’ il ventre antico e gretto, fascista del paese, riemerso come un miasma, come scoria tossica del ‘900, il più vergognosamente tradizionalista e nazionalista, mischiato all’ignoranza, all’analfabetismo di ritorno, alla mancanza di memoria storica, all’incuria delle coscienze, il fascismo postmoderno da curva sud, ruvido e barbarico quanto forte anche fuori dallo stadio.
Conosco certi onesti e bravi padri e madri di famiglia dell’universale classe media, la loro devozione alla chiesa cattolica, magari, il battersi il petto la domenica, sognatori di merci superflue, conosco l’odio che può scatenarsi in un tinello davanti a uno schermo tv, le maschere facciali contro i meridionali, quelli della “bassa Italia”, i “tripolini”, contro i “negri di merda”, li conosco e come questi nascosti benpensanti che fanno opinione diffusa ma che in pubblico si mostrano come irreprensibili democratici. E’ la vera zona d’ombra del Paese reale. Sono gli stessi che considerano le donne corpi privati da possedere.
L’assassino di Emmanuel, Amedeo Mancini, è una testa calda di quartiere, orfano di entrambi i genitori, uno che ho visto girare più volte col suo pitbull e con il quale ho parlato, un povero cristo al quale hanno dato una ragione di vita nell’odio, perché la sua vita era niente, consisteva nell’allevare tori e girare nei bar, bere birra e ringhiare contro gli stranieri ai quali lanciava noccioline per dimostrare di esistere, e apostrofarli come “scimmie africane”. E’ il prodotto di scarto di una società che ha saputo creare solo sottocultura, povertà intellettuale, disagio. Pronto a entrare in azione quando le trame della Storia gli hanno offerto una tragica chances. Altri sono i mandanti morali, altri sono gli ispiratori che stanno nella zona grigia della paura, ostili ai valori dell’Europa unita, a quei principi di solidarietà e umanità che saldano le nostre culture, e che in un momento di crisi economica non vogliono perdere neanche un piccolo pezzo dei propri privilegi.
C’è un saggio illuminante che lessi da ragazzo, Come si diventa nazista di William Allen. E’ la storia di una piccola cittadina tedesca tra il 1930 e il 1935, diecimila anime, ma anche un libro che spiega scientificamente come una popolazione tranquilla si trasformò in poco tempo in una spietata sostenitrice di una dittatura sanguinaria, quella di Hitler. Se dovesse raffigurare uno come Mancini, l’assassino di Emmanuel Chidi Namdi, l’autore scriverebbe: «Una singola unità non può mai rispecchiare adeguatamente l’intero Tuttavia in essa si riscontrano caratteristiche rappresentative». Come spiega Luciano Gallino nell’illuminante prefazione: «Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà; tra l’impulso di ridurre l’angoscia del futuro e del dover scegliere». Questo è il rischio che stiamo correndo.
Angelo Ferracuti