Governo Monti e democrazia commissariata

martedì, 15 novembre 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.

Quando Mario Monti accettò il mio invito tv all’Infedele, lo scorso 26 settembre, mi aspettavo certo che l’ansia per la crisi e la curiosità per l’uomo nuovo ci avrebbero gratificato di qualche punticino di share; ma temevo che sul mio blog si sarebbe riversata una massa imbarazzante di commenti ruvidi all’indirizzo dell’“euroburocrate”. Fu una vera sorpresa scoprire, a notte fonda, che prevalevano nettamente gli apprezzamenti. In particolare per una certa umiltà, la sensazione che il professore si mettesse davvero in ascolto anziché limitarsi a sciorinare dall’alto le proprie competenze.
La diversa postura non basta, ci mancherebbe, a fugare il sospetto di un cambio di governo telecomandato dall’alto dopo la fallimentare riunione a Cannes di un G20 sbandato e impaurito: non è certo una coincidenza se durante il week end successivo si è consumata la crisi di governo in entrambi i paesi epicentro dell’uragano finanziario, la Grecia e l’Italia. Che ora, guarda caso, sono guidati ambedue da personalità come Lucas Papademos e Mario Monti di formazione tecnica e molto bene inseriti nell’establishment finanziario. E’ un problema serio, le regole dell’economia globale mal si conciliano con l’esercizio democratico della sovranità popolare in un mondo reso interdipendente dalle migrazioni, dagli intrecci azionari, dalle comunità accademiche, e non solo dalla speculazione e dalle multinazionali.
Eppure vale la pena di rilevare questa sensibilità politica di Monti nell’adeguarsi con stile dimesso, che gli è connaturato, allo spirito dei tempi. Il nuovo capo del governo italiano riconosce la scandalosa sottovalutazione fin qui perpetrata dell’equità sociale e parte con la disposizione d’animo giusta anche per realizzare quei tagli ai costi della politica tante volte promessi e rimasti sulla carta. Insomma, consiglio di non sottovalutarne il futuro di leader a tutto tondo, in un paese che ha già visto molti tecnici trasformarsi in padri della patria.
Una volta riconosciuto che esiste, serissimo, il pericolo di un’incompatibilità tra finanza e democrazia, evitiamo però di lasciarci incantare dalle lamentazioni della destra italiana orfana del suo governo. Colpo di Stato? Governo senza legittimità? Berlusconi dimissionario per “generosità” pur conservando la maggioranza parlamentare? Sono tutte balle. La prima spinta alla caduta di Berlusconi è venuta, possente, dalle elezioni amministrative di primavera, quasi un plebiscito per la nettezza dei risultati che lo certificavano sconfitto in casa propria, a Milano. Seguite da ventisette milioni di Sì a un referendum antigovernativo che dopo 16 anni recuperava il quorum nell’incredulità dell’intera classe dirigente. L’emorragia di consensi parlamentari sofferta dal centrodestra, ridotto fino a soli 308 deputati alla Camera dove nel 2008 godeva di almeno sessanta voti di scarto, è stata la conseguenza di una evidente delegittimazione popolare. Nessuno può onestamente sostenere che Berlusconi sia caduto solo a causa della sfiducia dei mercati.
Quanto ai vaniloqui fascistoidi contro il presunto nuovo potere “pluto-massonico”, Michele Serra ha ben ricordato a tutti che l’abbiamo finito appena di sperimentare: forse che non ci ha governati fin qui l’uomo più ricco della nazione, iscritto a una loggia massonica riconosciuta eversiva come la P2? Non sono affatto sicuro che basti un governo Monti a evitare il default italiano. Ma intanto voltiamo pagina.

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