La politica e l’avidità

mercoledì, 8 ottobre 2008

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.

Come ogni Medioevo che si rispetti, anche l’età contemporanea è minacciata da una peste che miete vittime innocenti: la speculazione. E così le autorità promettono al popolo di debellare questo nemico senza volto. D’un colpo scoprono e denunciano il vizio capitale dello speculatore, colui che ci ha imprigionati nella sua rete e depredati: l’avidità.
Ecco i convegni sull’etica del capitalismo trasformarsi in eventi mondani, dove la nuova eleganza si chiama sobrietà. Imprenditori celebri per l’abilità con cui si sono destreggiati nel circuito dell’economia virtuale, rilasciano interviste accigliate contro la finanza creativa. Gli economisti, per prudenza, esibiscono testi in cui risulta che già prima del crac denunciavano il malaffare, ciò che non gli evita l’umiliante richiamo: tacete!
Ma è la politica, spaventata dalla fine della Belle époque, a scatenare la caccia all’untore, colpevole di diffondere la peste del XXI secolo. Gli stessi che fino a ieri teorizzavano il “meno Stato” e praticavano le cartolarizzazioni, intuiscono che l’avvento della crisi offre una tribuna ideale per riabilitare l’autorità politica. Poco importa allora che i nuovi aspiranti leader provengano dalla medesima superclasse globale arricchitasi nel tempo della speculazione, o che magari vadano in vacanza col Falcon executive prestato dall’amico finanziere. Urge distaccarsene, fino a minacciare nei vertici intergovernativi una non meglio precisata “punizione dei manager”, per restaurare il primato della politica.
Così l’indistinto demoniaco dell’avido speculatore comincia ad assumere fisionomia. Nomi e cognomi da dare in pasto alla furia dei risparmiatori. Sotto a chi tocca, manager e banchieri colpevoli di “eccessi”, come se esistesse un capitalismo diverso, virtuoso, che avrebbe potuto fare a meno di loro.
Suscita rispetto il richiamo di Benedetto XVI a uno stile di vita diverso: “I soldi non sono niente!”. Ma viene applaudito senza credergli. L’immaginario populista non aspira a relazioni economiche sostanzialmente diverse. Si è ormai assuefatto alle disuguaglianze sociali. Non è all’ordine del giorno una più equa distribuzione delle risorse fra lavoro e profitti, o tanto meno tra paesi ricchi e paesi poveri. Più modestamente, cerchiamo lontano da noi il difetto del sistema cui apparteniamo: a ciò si presta la caricatura della Borsa come regno della “Dea speculazione”, celebrata da sacerdoti voraci. Di qui all’”adunca mano della finanza internazionalista”, il passo è breve. E’ sempre un demone cosmopolita, nemico della patria, colui che impoverisce il popolo e l’industria laboriosa. Aver lavorato per la Goldman Sachs torna a essere un pessimo biglietto da visita. “Per fortuna le nostre banche non parlano inglese”, scherzava Umberto Bossi la sera del lunedì nero.
E’ prevedibile che il panico da crollo in Borsa risvegli l’eterno mito cospirazionista che, come ricorda lo storico Francesco Cassata, dominò l’inizio del Novecento: “Trecento uomini che si conoscono l’un l’altro, reggono i destini economici del mondo e designano i loro successori nel loro stesso entourage” (ne “La Difesa della razza”, Einaudi). Oggi magari lo stereotipo conterebbe tremila “dominatori” anziché trecento, e per disegnare il profilo degli speculatori al naso giudaico si affiancherebbero gli occhi a mandorla, la mascella russa, la carnagione olivastra del petroliere. Ma l’archetipo resta sempre lui, il moderno usuraio vituperato da Ezra Pound. Spregevole come l’ha raccontato nel 1929 la ventiseienne Irène Némirovsky nel romanzo in cui faceva i conti con la figura del padre, ebreo galiziano divenuto ricchissimo grazie a una visione globale dei traffici: “David Golder” (Adelphi). La descrizione di un uomo drogato dal bisogno di combinare affari, insaziabile accumulatore di denaro, pessimo padre e marito, perfetto per essere additato come colpevole della povertà altrui, attirò sulla Némirovsky l’ingiusta accusa di antisemitismo. Ma non la salvò dalla deportazione e dalla morte a Auschwitz. Fu proprio allora, quando andò in crisi la globalizzazione d’inizio Novecento, che la cultura popolare scoprì l’esistenza di queste figure di un nuovo potere finanziario sovranazionale. Fu sollecitata a temerle. Non è scontato che oggi, vivendo di nuovo il tempo di paura, prevalga invece la consapevolezza che l’economia mondiale ha bisogno di strumenti finanziari. E che i primi a essere penalizzati dal ritorno alle banche “nazionali” sarebbero i poveri.
La pubblicazione dei redditi enormi di banchieri e manager protagonisti del crac (mancano però nelle classifiche le rendite nascoste di molti imprenditori) suscita dispetto solo oggi, perché vi corrisponde un impoverimento generalizzato del ceto medio e dei risparmiatori. Ma invece di esaminare la disfunzione strutturale di un sistema che si alimenta di rischi e incentivi, ci mettiamo in cerca di un cattivo cui estorcere pubblici autodafè.
Lo speculatore va alla sbarra, ma non ci resterà a lungo. Perché la presunta moralità contenuta in un prodotto meccanico contrapposta all’immoralità di un derivato speculativo, è una favola suona bene ma non regge. Non esiste una produzione di beni che possa fare a meno della leva finanziaria.
L’avido speculatore avrebbe buon gioco nel ricordare al politico che il sistema di regole e controlli rivelatosi fallimentare l’ha varato (o subìto) chi governa. Le regole, bisognerà riscriverle con gli strumenti della democrazia. Pretendere d’imporle dall’alto, come sul Monte Sinai, pone un problema: lassù riconoscono subito gli adoratori del vitello d’oro.

I commenti sono chiusi.

I commenti di questo blog sono sotto monitoraggio delle Autorità. Ti preghiamo di mantenere i toni della discussione entro i limiti di buona educazione e netiquette in essere come regole del blog. Inoltre usa con moderazione i seguenti comandi di formattazione testo.