Nichi Vendola e l’Ilva di Taranto. Storia di una sconfitta politica

venerdì, 15 novembre 2013

Aggiornamento: Venerdì 15 novembre è stata pubblicata un’intercettazione telefonica tra il presidente della regione Puglia Nichi Vendola e Girolamo Archinà, addetto alle relazioni esterne dell’Ilva. I due dialogano sul microfono strappato dallo stesso Archinà ad un giornalista che chiedeva spiegazioni sui tumori a Taranto ad Emilio Riva.

Vendola ha annunciato querela contro “Il Fatto Quotidiano” per il suo resoconto su questo colloquio telefonico, ed ha spiegato così ai microfoni di Repubblica TV la sua posizione.

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Nichi Vendola definisce l’accusa di concussione mossagli dalla Procura di Taranto per il disastro ambientale dell’Ilva come “la più grande ingiustizia della mia vita”. Può darsi. Non sarà facile alla magistratura dimostrare che il presidente pugliese boicottasse l’operato della sua Agenzia per la protezione ambientale, al fine di favorire i padroni dell’acciaieria; tanto più che a negarlo è lo stesso responsabile dell’Arpa, Giorgio Assennato, cioè il presunto concusso. Ma il dramma umano di questo dirigente della sinistra impegnato nell’ardua impresa di far coesistere produzione industriale e bonifica del territorio, ben prima dell’indagine giudiziaria si era già consumato nella sconfitta politica che l’ha preceduta. Vendola ha sbagliato valutazione sulla natura del suo interlocutore: i Riva non erano capitalismo illuminato, bensì imprenditori rapaci e spregiudicati.
Questo dato di fatto emerge inequivocabile dall’inchiesta tarantina, con i suoi 53 indagati: una ragnatela pervasiva tessuta dai fiduciari di questa famiglia bresciana che dall’Ilva ha tratto profitti miliardari e che con pochi spiccioli addomesticava il consenso dei poteri locali. Amministratori, sindacalisti, funzionari, parroci indotti a considerare un male minore la violazione delle norme antinquinamento, e a fare pressione per l’ottenimento di sempre nuove deroghe e autorizzazioni benevole.
Cosa c’entra Vendola con tutto questo? Certo non gli si può addebitare il degrado della classe politica tarantina, guidata per anni dal malavitoso Giancarlo Cito e poi da una giunta di destra che ha portato il Comune alla bancarotta. Ma è stato in quel contesto disastrato che Vendola si è illuso di trovare nella potenza dei Riva, forse nel loro interesse al risanamento degli impianti, una via d’uscita. Così ai tarantini che cominciavano a ribellarsi, dentro e fuori la grande fabbrica, è parso come se la sua necessità di mediare con la grande impresa del Nord, e di garantirle la continuità produttiva, costringesse anche Vendola a tessere relazioni informali col potere aziendale; perfino a dichiararsi infastidito dagli eccessi di severità della magistratura e dell’Agenzia per la protezione ambientale (Arpa). Nessuno insinua che fosse mosso da convenienze illecite. Semmai che sovrastimasse le sue capacità di relazione, mentre a Taranto le condizioni di vita degeneravano fuori controllo. La spasmodica ricerca di un compromesso, ai margini della legge, fra garanzia di continuità produttiva e rispetto delle norme sulle emissioni, concedeva ai Riva una rispettabilità che i tarantini più avvertiti non potevano più riconoscere loro. Questo è l’errore che ha isolato Vendola dai movimenti di protesta cresciuti in città a sostegno dell’azione della magistratura. E siccome in precedenza un errore simile Vendola lo aveva già compiuto assegnando a don Luigi Verzè, senza gara pubblica d’appalto, l’incarico di costruire un nuovo ospedale a Taranto, tale reiterazione sollecita un interrogativo: non avrà pesato nelle sue scelte il bisogno di presentarsi come “comunista di mondo”, capace di intrattenere buoni rapporti con la controparte? So bene che il suo stile di vita è integerrimo, e che in lui la virtù della gentilezza non si è mai tramutata in mondanità salottiera. Ma temo che la reciproca incomprensione fra Vendola e la protesta di Taranto scaturisca proprio da questa esibizione velleitaria di impotenza della sinistra di governo. Non a caso alle elezioni del febbraio scorso nella città dell’Ilva sia la destra che i grillini hanno sorpassato il centrosinistra.
La situazione è precipitata quando la magistratura tarantina ha sequestrato l’area a caldo dell’acciaieria e ha imposto la chiusura delle lavorazioni fuorilegge, rifiutando, in nome dell’obbligo costituzionale della tutela della salute, le sollecitazioni a rinviare e a soprassedere che le giungevano dall’alto. Ricordo il titolo di un giornale di destra, dedicato in quei giorni dell’agosto 2011 alla gip Patrizia Todisco: “La zitella rossa che licenzia 11 mila operai Ilva”. Sempre allora la direzione aziendale incoraggiò le maestranze a manifestare in difesa degli impianti, esasperando la spaccatura interna ai sindacati così come la lacerazione fra lavoratori impauriti e cittadini ormai consapevoli dell’alto tasso di mortalità tumorale. Ma in quel frangente drammatico fu l’intero establishment nazionale a esecrare la Procura di Taranto come un covo di irresponsabili. Solo perché applicava la legge. Tanto che il recente congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati ha denunciato “l’ideologia del mercato quale unica salvezza” con cui si è preteso di calpestare l’”effettività dei diritti”.
Sono sicuro che Vendola condivide questa amara constatazione dell’Anm. Ma allorquando il dilemma si è posto in tutta la sua drammaticità a Taranto, la sua leadership era già compromessa.

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