Pd: che differenza c’è tra Pierluigi e Dario?

mercoledì, 22 luglio 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Né Pierluigi Bersani né Dario Franceschini possono nutrire molte speranze di essere chiamati a guidare il governo italiano, nei prossimi anni. Gareggiano per la segreteria di un Partito Democratico che loro stessi ammettono essere poco competitivo, e anche poco entusiasmante, ma che resta il “meno peggio”.
Quand’anche parliamo di ipotetica successione a Berlusconi, i nomi che spuntano provengono da tutt’altre parti: Giulio Tremonti, Gianfranco Fini, Gianni Letta, o al massimo Mario Draghi. Diciamo allora che il dibattito estivo del Pd in vista del congresso e delle primarie del prossimo ottobre, nonostante l’apporto di uno “straniero” valoroso come Ignazio Marino, suscita piuttosto l’interesse di una fase eliminatoria che non di una finalissima. Fuor di metafora, gli iscritti e gli elettori del Pd sono chiamati a selezionare una leadership da cui sarebbe ingeneroso pretendere che vinca la sfida delle elezioni regionali fra meno di un anno (in Italia si vota di continuo, accidenti). Una leadership di passaggio, non si sa bene se verso il meglio o verso il peggio.
Tutti gli indizi concorrono a pronosticare Pierluigi Bersani come il favorito ai blocchi di partenza. Dopo avere già rinunciato due volte alla candidatura (prima e dopo Veltroni) pur di farsi eleggere segretario con procedure che restituiscano maggior peso ai tesserati del partito, sembra avere dalla sua gran parte dell’apparato. E inoltre ha una lunga (troppo?) esperienza governativa che a Franceschini manca. La principale debolezza di Bersani è che le circostanze gli impediscono, ancora una volta, di dire fino in fondo come la pensa. Per lui il riformismo politico è un’arte del possibile che deve adeguarsi alla realtà. E se l’Italia è un po’ maneggiona, pazienza, bisognerà essere simpaticamente un po’ maneggioni anche noi. Dunque le si adatta meglio un sistema elettorale che consenta a più partiti di entrare in Parlamento e lì eventualmente capitalizzare insieme i voti presi gli uni contro gli altri. In sintesi: l’unica chance che avrebbe il centrosinistra di tornare al governo sarebbe di costruire un saldo partito di raccolta dell’elettorato di sinistra, per poi allearsi con un bel partito di centro. Pur di farcela bisognerà candidare Pierferdinando Casini a Palazzo Chigi? Vedremo, Bersani è uomo di mondo…
Dario Franceschini ha un handicap: è l’erede di un esperimento fallimentare come il veltronismo, con cui è stato troppo reticente nel fare i conti anche se da segretario-reggente ne ha preso le distanze. Il rischio adesso è che intorno a lui si riproduca il coacervo di equivoci che ha seppellito il suo predecessore: notabili in cerca di sopravvivenza che la pensano diversamente uno dall’altro, e che se ne restano un po’ in disparte mentre Franceschini lancia il suo appello agli elettori del Pd, in contrapposizione al suo impopolare apparato. Perderà il congresso, cercherà una rivincita clamorosa nelle primarie che si terranno dieci giorni dopo. Lui, a differenza di Bersani, resta un sostenitore del nuovo bipartitismo: da una parte il Pdl, dall’altra il Pd. Scelgano gli elettori, e niente giochetti in Parlamento.
Ignazio Marino è un pizzico di sale dentro una competizione che sarà comunque vera e, speriamo, democratica. Rappresenta non solo il malessere di una cultura laica troppe volte sacrificata per convenienze politiche; ma anche la delusione di tante personalità chiamate dal Pd a fornire il loro apporto di competenze, ma poi lasciate ai margini da leader che ne snobbano il dilettantismo.
Nel mio scetticismo, per ora esprimo un pronostico più che una preferenza personale. Il Pd è l’unico contenitore che possa tenere vivo un credibile progetto alternativo alla destra. In attesa di sorprese felici, sceglieremo il meno peggio.

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