I migranti e la Shoah

mercoledì, 26 agosto 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
A molti è parso esagerato -dopo la morte nel Canale di Sicilia di 73 eritrei che stavano cercando di raggiungere l’Italia, avvistati ma non soccorsi da numerose imbarcazioni- il paragone con gli ebrei trascinati a morire nei lager tra l’indifferenza generale. Una comparazione storica proposta da Marina Corradi, firma di punta del quotidiano cattolico ”Avvenire”, il giorno stesso in cui giungeva la notizia tragica da Lampedusa, senza che il governo italiano esprimesse una sola parola di pietà per quelle vittime.
Ma insomma: si può o non si può fare il richiamo alla Shoah, cioè alla strage di innocenti più vasta e sistematica perpetrata sul territorio europeo nel Ventesimo secolo?
Io penso che la Shoah non debba rimanere un evento intoccabile, e che invece sia lecito “usarla” per riflettere meglio sui fatti del mondo contemporaneo. Sono quasi sicuro che se fosse ancora vivo la penserebbe così anche Primo Levi, il principale testimone della Shoah che ho conosciuto.
Detto ciò, so bene che il paragone storico con la Shoah può far male. Per aver ricordato in tv che l’ostilità e i pregiudizi diffusi oggi contro gli zingari sono gli stessi che li destinarono alle camere a gas insieme agli ebrei, e che hanno molti tratti in comune con l’antisemitismo, mi sono beccato una sequela di insulti e minacce: come osi paragonare gli ebrei a quella banda di ladri, nasone, se fossi uno di voi verrei a prenderti in sinagoga per il collo…
Una reazione piena di odio razzista che mi ha ulteriormente convinto sulla necessità di un buon uso della comparazione e della memoria storica, troppo spesso deformata.
Naturalmente capita pure a me di arrabbiarmi se sento un premio Nobel paragonare la città di Ramallah al campo di Auschwitz, o la condizione di vita dei palestinesi di Gaza a quella degli ebrei nel ghetto di Varsavia. Basta sapere un minimo di storia per riconoscere la bestialità di questo paragone che, volendo insultare gli israeliani, finisce per danneggiare gli stessi palestinesi vittime di gravi ingiustizie. Si tratta, in questo caso, di un uso sbagliato della storia.
Ma allora qual è l’uso giusto? Il paragone con la Shoah è lecito solo se “quantitativo”, cioè se denuncia massacri di analoga portata numerica? O può essere anche “qualitativo”, riferito cioè alla modalità e alla natura dell’ingiustizia perpetrata?
Anche qui mi soccorre un esempio. Più di una volta Giovanni Paolo II paragonò alla Shoah quella che definiva la strage dei bambini mai nati a causa dell’aborto. Quantitativamente, in effetti, le interruzioni di gravidanza sono più numerose degli ebrei ammazzati dai nazisti. Ma la mia sensibilità rifiuta di mettere sullo stesso piano il feto che una donna liberamente rifiuta di mettere al mondo –o che, fatto grave e orrendo, viene costretta a abortire- con le moltitudini di persone rastrellate, deportate e eliminate dai nazisti. L’aborto è un evento sempre doloroso, ma non è paragonabile a un omicidio, tanto meno collettivo. Su questo punto suppongo che la mia opinione si differenzi da quella di Marina Corradi, autrice dell’editoriale di “Avvenire” sui migranti abbandonati nel mare.
Ciò che invece mi unisce a lei nel ritenere legittimo, e utile, il paragone con la Shoah quando ci confrontiamo con il trattamento subito dai migranti africani, è una constatazione di natura qualitativa. Trovo giusto e doveroso denunciare l’indifferenza con cui non solo i nostri governanti, ma anche la maggioranza degli italiani, trattano queste persone. Come se fossero untermensch, cioè sottouomini: il termine con cui i nazisti giustificavano i loro crimini. Anche quando i migranti giungono a noi, li cancelliamo come esseri diversi, indegni della nostra pietà. Proprio come fecero milioni di europei con i loro vicini di casa ebrei solo 65 anni fa.

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