Alla ricerca del passato – di Adriano Sofri

mercoledì, 11 novembre 2009

Riporto in quest’articolo la recensione del mio nuovo libro Scintille, storie di anime vagabonde, scritta da Adriano Sofri e pubblicata su Repubblica l’11 novembre scorso.

Negli ultimi anni, non pochi, Gad Lerner ha avuto una doppia vita. Una era quella che si vedeva in televisione, si leggeva nei suoi articoli sui giornali e in qualche libro d’occasione, e si conosceva, chi la conosceva, con la sua famiglia, la sua casa di città e la sua casa di campagna. In un’altra vita, nota pressoché solo ai suoi cari, Gad andava sulle tracce dei suoi genitori e dei suoi avi e, attraverso loro, sulle proprie tracce. Questo libro non è il diario della seconda vita, ma il suo lucido, doloroso, appassionato deposito. Se, prima che leggessi questo libro, mi avessero chiesto se conoscessi Gad, avrei risposto di sì, che lo conoscevo bene. Ora so che lo conoscevo pochissimo. Quando si pensa di conoscere “bene” qualcuno, di essergli amico, si è spesso dimenticato di farsi più delle domande sul suo conto, di chiedersi com’è, come sta, da dove viene e dove va, e a che punto è –a che punto siamo. Ci si interroga ancora meno su se stessi, del resto, in nome dell’abitudine dubbia a ritenere di conoscersi come le proprie tasche: si smette di frugare nelle proprie tasche, come se fossero senza sorprese. Se qualcuno mi avesse chiesto: “Tu che lo conosci, com’è Gad?”, gli avrei raccontato un piccolo episodio di galera. Io ci stavo dentro, lui mi faceva visita. Io avevo una maglietta qualunque, grigia, lui un elegante maglione giallo. Non lo aspettavo, l’avevo visto in televisione la sera prima, aveva indosso la maglia gialla, io passavo per uno fermo agli stessi colori poco colorati, grigio, nero, tutt’al più blu. Tornai in cella sgargiante, e lui tornò in strada con quella maglietta grigia. Avrei raccontato questo. Oggi, a chi me lo chiedesse, direi soltanto: “Leggete il suo libro”. “Scintille”, si chiama. Una storia di anime vagabonde, le anime dei suoi, i vivi e i morti. E’ la sua storia. Penso che anche Gad abbia di sè oggi, alla fine del libro, un’idea molto diversa da quella che aveva prima di partire. E’ partito e tornato tante volte, verso i luoghi dei suoi avi, le case in cui avevano dimorato, i boschi che hanno concimato. Il primo viaggio in Ucraina nel 2001, il primo ritorno in Libano nel 2007, cinquantatré anni dopo esserci nato, cinquant’anni dopo esserne andato via. I suoi avi erano stati ebrei messi d’improvviso in movimento, dalla Galizia polacca e l’Ucraina e la Lituania al vicino oriente di Beirut e di Aleppo, a Israele e fino all’Italia. Gad è riandato tenacemente a dipanare il mucchio dei congiunti “denudati e ammassati e trucidati in luoghi per fortuna lontani”, e rimossi, “come una riprovevole vergogna”, dai nuovi ebrei, “gli ebrei fortunati come noi”. Ha fatto e rifatto il viaggio nei luoghi in cui avrebbe potuto –avrebbe dovuto?- nascere. Quanto pesa un luogo di nascita sulla sorte di un essere umano, quanto ha pesato sulla sorte di chi nasceva a Lemberg-Leopoli, a Berdy?ev. “Se i nonni Lerner non avessero dovuto lasciare dopo chissà quante generazioni la Galizia yiddish, oggi Ucraina, e io fossi nato dove allora mi sarebbe toccato nascere. Se fossi nato in Israele dove sono nati i miei genitori e dove sono tornati a morire tutti e quattro i miei nonni… Se fossi rimasto a vivere là dove sono nato, a Beirut… E dovrei chiedermi cosa ne sarebbe di me se non avessi attraversato il mare, se non fossi italiano. Se la vita non mi avesse sospinto al di là del passato”. Commuove questo oltrepassare il passato, ma alla condizione di esserci tornato, di aver ripercorso le strade della Boryslaw di Bruno Schulz in cui il tempo andava avanti e indietro, salvo spezzarsi nell’assassinio gratuito di un giorno, o negli anni dello sterminio. Non è un bilancio conclusivo quello di Gad, è il rendiconto a mezzo cammino di un uomo che è diventato padre da tempo, vuole farlo com’è giusto, e chiede ai suoi figli di accompagnarlo, e, figlio a sua volta di un padre e una madre, chiede loro scusa per aver deciso di raccontare la loro e la propria incomprensione senza aspettare che siano morti. Si è impressionati dalla sincerità temeraria di questo libro. Il rispetto per un padre rinnegato e rinnegatore –“Sono io il vero Lerner”- e l’amore per una madre fedele a un’originaria perfezione della famiglia paterna come una pianta rampicante al suo muro – fotografata ragazza, bellissima, sulla Corniche di Beirut, i capelli e l’abito nero con le maniche a sbuffo- non bastano più a giustificare un quieto e affettuoso vivere. Bisogna rendere conto ai dimenticati delle fosse comuni, e alla gente di cui furono parte – e ai figli. E’ strano da dire per un uomo ancora giovane –e “di successo”- ma è come se l’ansia per la precarietà antica che è del suo popolo si sia spinta in Gad fino a una vergogna riflessa e a un sentimento testamentario, se una sincerità da ora estrema si sia impadronita del suo tempo ordinario, cambiandolo. “Sono cresciuto dall’infanzia alla terza età nel dubbio che prima o poi trapelasse la tara della mia impresentabilità ereditaria. Neanche il benessere e i successi professionali, accidentalmente conseguiti, hanno rimosso quello stato d’animo. Forse è per questo che, dopo aver vissuto una gioventù indigente, ho finito per attribuire un peso eccessivo ai soldi come metro della mia accettazione. Sicuro peraltro che i soldi, presto o tardi, se ne sarebbero andati com’erano venuti, portandosi con sé anche il mio decoro. restituendomi alla condizione da cui mi ero illuso di sfuggire”.
Cambiandolo col segno del dolore e della profondità, di un dolore profondo. Una famiglia vive di affetti e appartenenze reciproche, e reciproche separazioni, rotture e disconoscimenti: e di una trama di racconti e memorie che serve a riconoscere ma anche a dimenticare. Andare in cerca della memoria intera mette a repentaglio le rispettive trame costituite, i racconti e i silenzi tramandati. Gad fa un passo fuori dal cerchio dei legami stabiliti, e il gioco delle parti si scompone e ricompone. Da lì fuori può guardare gli altri, lasciare che gli altri guardino a lui –salvo che preferiscano voltargli le spalle, per un momento offesi. Rotta la convenzione che tratteneva solo le cose in luce e allontanava il buio, deve affrontare l’assalto di ricordi terribili, che non aveva più o non aveva mai avuto, e anzi andare loro incontro. Non si tratta di ribellarsi alla norma di lavare i panni sporchi in famiglia: nella famiglia si conservavano solo panni puliti e decenti, eleganti anche. Perfino estrarre dai cassetti le fotografie antiche sembra uno strappo penoso. Gad si appiglia al modo dei rabbini, all’esegesi della lettera, alla riscoperta delle parole e delle loro conseguenze. Parte dall’imperativo biblico –“Vattene –dalla casa del padre” ma anche “Vattene –va’ verso te stesso”. Parte, coscritto da un nome –dalla parola gilgul , il tumulto delle anime strattonate, il vortice che le travolge e le frantuma in scintille dopo che il loro trapasso è stato dirottato da una sventura, e le fa vagabondare illudendo che ogni arrivo in un luogo nuovo sia un ritorno. Lo sguardo muove da una fessura per allargarsi, come con la morte dentro il tank guardata, con l’intero Israele, dal confine del Libano, accanto a un intelligente generale italiano. E ogni volta, nell’Europa che fu asburgica o nel Vicino Oriente che fu ottomano, scoprire che i paesi sono ancora devastati dagli stessi odii, dalle stesse impenetrabili esclusioni, dagli stessi nazionalismi decrepiti e virulenti. Che l’ottusità è succeduta allo sterminio, e dura. E sentirsi e poi volersi spaesato, e trovare, di là dal naufragio minacciato dei legami consanguinei, la forza di una nuova famiglia scelta, di un passaporto guadagnato.
Non solo io, che gli sono amico, più o meno tutti, con la professione che fa, pensano di conoscere Gad. Se leggeranno il libro ne saranno colpiti. Colpisce, di questi tempi, una profondità dolorosa.

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