A voi la recensione di Alessandro Piperno, del mio nuovo libro Scintille, uscita l’11 novembre su Vanity Fair.
Scintille, il nuovo libro di Gad Lerner, è una vera e propria resa dei conti. E’ questa la ragione della sua insostenibile densità?
Ma andiamo con ordine.
Si tratta di un tuffo – narrativo saggistico autobiografico – nella propria genealogia familiare. Che prende spunto da alcuni viaggi da Lerner intrapresi negli ultimi anni nei suoi luoghi originari. Si dà il caso che Gad Lerner sia quel che Nabokov avrebbe chiamato, non senza autoironia, “un’insalata di geni razziali”. E’ nato in Libano da un padre askenazita originario della Galizia (oggi un po’ Polonia un po’ Ucraina), e una madre sefardita di una buona famiglia libanese. Come è facile immaginare gran parte della famiglia paterna è stata massacrata negli anni in cui gli ebrei venivano massacrati. Poi, quando anche il Libano è diventata una terra inospitale per gli ebrei, il piccolo Gad è giunto per caso dalle nostre parti. Lerner ci tiene a rivendicare questa sua identità di “italiano per caso”. In effetti la sua complicata famiglia avrebbe potuto emigrare ovunque. In Israele. Negli Stati Uniti. In qualche paese europeo più civile e noioso del nostro. Ma tant’è. Eccolo qui tra noi.
Non stupisce che di recente lui abbia sentito l’esigenza di tornare a Beirut, sua città natale, e a Boryslaw dove il ventotto novembre del 1941 molti componenti della sua famiglia paterna vennero sterminati e gettati in una fossa comune. Non esiste richiamo più potente di quello del sangue (e vorrei che alla parola “sangue” il lettore desse tutte le accezioni possibili).
La storia di Gad Lerner ha un peso specifico davvero sconcertante. E’ come se lui fosse una sorta di ultimo discendente di una serie di mondi scomparsi. E allo stesso tempo il relitto delle più significative tragedie novecentesche. Ecco perché il modo in cui dà conto di questi viaggi della memoria è così denso. Così insostenibilmente denso. Lerner, nonostante faccia di tutto per apparire leggero, è un viaggiatore con la valigia troppo piena: tristezza, rancore, nostalgia e tanta tanta letteratura. Sono infiniti e prestigiosi i compagni di viaggio di Lerner, a cui si appoggia, che cita, che ama, che gli danno forza e coraggio: Bruno Schulz, Vasilij Grossman, Martin Buber, Isaac B. Singer, Shalom Alechem, Joseph Roth, Primo Levi… Tutti correligionari dalle vite più o meno tragiche ma in ogni modo tutti ossessionati dalla propria tragedia. Walter Benjamin, un altro grande ebreo finito male, sognava di scrivere un libro fatto solo di citazioni. Ho l’impressione che Lerner sia stato traversato da una tentazione analoga. E’ come se avesse bisogno di giustificare la sua sofferenza, la sua nostalgia, la sua irritazione (la sua esistenza?) con le parole e gli atti di prestigiosi e dolenti fratelli maggiori. E Dio sa se lo capisco.
Ma cosa nasconde tutto questo? E a cosa servono certi viaggi? E qual è il senso di continuare a massacrarsi con memorie così dolorose? Si cerca consolazione o altrimenti ci si vuole fare del male? Si cerca di stare meglio o si cerca di stare peggio? Si fa tutto per essere accettati o per essere rifiutati? Non lo so. Me lo chiedo da che ho memoria.
Certo è che in questo libro serpeggia un tale senso di inadeguatezza e di malessere. Così opprimente che a un certo punto Lerner ha un bisogno morboso di confessarlo. E’ allora che parla della vergogna. La vergogna che ogni ebreo ha di essere quello che è. Che solo talvolta si mescola alla fierezza ma che il più delle volte resta vergogna allo stato puro. “Quando si parla di sgradevolezza ebraica, c’è di mezzo un’umiliazione perseguita nel tempo. Un’inferiorità straniera comminata dal senso comune. In una parola, c’è la vergogna, sentimento che avverto così famigliare. Per molti anni, quando mi imbattevo nelle fotografie scattate nei lager dai soldati nazisti poco prima di mandare a morte gli ebrei, d’istinto mi proibivo di guardarle e voltavo pagina. […]. Un inconfessato senso di vergogna attraverso cui mi sentivo accumunato alla miseria delle vittime”.
Insomma è la vergogna l’angosciosa presenza acquattata dietro a ogni pagina: che prende forma tenera e terribile nel rapporto complicato che Lerner intrattiene con la figura più significativa del libro. Il padre, Moshé Lerner, la cui descrizione fisica e morale possiede una vividezza davvero letteraria. Non a caso il libro si apre con lui. Con una prodezza che non stento a definire straordinaria: “”Pronto… le interesserebbe avere un’intervista con il vero Lerner?”. Era il 1995. Avevo da poco compiuto quarant’anni quando una famosa scrittrice mi conficcò degli aghi nella pancia raccontando di aver ricevuto una simile telefonata da mio padre Moshé”.
Trovo questa storia semplicemente sublime. Si fa un gran parlare delle madri ebree. Ma se solo sapeste cosa sono i padri. Quanto pesano. Quanto il loro puerile senso della competizione possa distruggerti. Quanto il loro narcisismo sia ingombrante, ingovernabile e distruttivo.
L’ironia è che la cosa più viva del libro di Lerner è certamente il personaggio del padre. Il dato beffardamente tragico, invece, è che sia proprio questo padre l’incarnazione della vergogna originaria del figlio (non avviene sempre così?). E’ lui – Moshé Lerner – ad aver perso tutta la famiglia durante lo sterminio nazista. E’ lui che ha rischiato di fare la stessa fine. E’ lui che non ha voluto fare i conti con tutto questo. E’ lui che ha perso tutte le occasioni possibili per essere grande. E’ lui che non ha contribuito in alcun modo alla nascita di Israele. E’ lui l’uomo rimasto pervicacemente senza patria, è lui l’inconcludente per antonomasia. E’ lui l’ultima versione dell’ebreo errante che conosce tutte le lingue ma non ne domina nemmeno una. “Restio a concedergli la pur doverosa indulgenza” scrive Lerner “da figlio prima ignaro e poi deluso, mi sono limitato finora a deprecare l’esito di tali continui strappi della personalità di Moché”.
Ebbene lasciatemi dire che, dovendo scegliere, al figlio preferirei il padre. Sì, meglio il cialtrone dell’intellettuale. Meglio colui che ha fatto di tutto per dimenticare che colui che a ogni costo vuole ricordare.