Se la Fiat ha la testa a Detroit

mercoledì, 10 febbraio 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gaetano Miccichè, che minaccia di spostare le trattative sul destino produttivo di Termini Imerese sotto casa di Sergio Marchionne, ignora forse che l’amministratore delegato della Fiat ormai vive più a Detroit che a Torino?
Quando lo stesso Marchionne dice a “La Stampa” che la Fiat può rinunciare agli aiuti governativi –e subito Berlusconi ne prende atto, per la gioia dei leghisti e dei piccoli imprenditori che da decenni lanciano accuse di favoritismo- possibile che nessuno si renda conto del “de profundis” implicito dentro un simile annuncio? Se la Fiat manifesta indifferenza riguardo agli incentivi di Stato nel settore automobilistico, ciò dipende dal fatto che la sua testa è proiettata altrove. Sa bene che vincerà o perderà la sua scommessa negli Stati Uniti, e semmai in Asia e America Latina, mentre l’Italia è destinata ineluttabilmente a diventare più luogo di smercio che di produzione dei veicoli. Dichiarando oggi con brutale chiarezza che lo stabilimento siciliano di Termini Imerese è uno stabilimento di troppo, i manager della Fiat non preludono a un’imponente ristrutturazione nelle tecnologie e nei modelli come accadeva trent’anni fa, nel 1980, sotto la guida di Vittorio Ghidella, Carlo Callieri, Cesare Annibaldi e Cesare Romiti. Allora si trattava di vincere la resistenza sindacale, liberarsi della manodopera in esubero, puntare sui robot e sulla “qualità totale” nei nuovi stabilimenti di Termoli, Cassino, Melfi. Il tutto con la supervisione politica della famiglia Agnelli, intenzionata a mantenere un ruolo di leadership nell’economia e nella politica italiana.
Nel 2010 non è all’ordine del giorno nessuna occupazione del colosso di Mirafiori per 35 giorni come avvenne nell’ottobre 1980, né tanto meno la direzione aziendale del Lingotto gode di consenso sufficiente a mobilitare in suo favore una nuova marcia dei quarantamila sotto la guida dei colletti bianchi. La famiglia Agnelli è un azionista meno rilevante, cui converrà diversificare gli investimenti rispetto a un “core business”, l’automobile, in ogni caso vincente solo se riuscirà a diventare sempre meno italiano.
Mi chiedo come sia possibile che l’avversione ideologica per la Fiat connaturata alla destra di governo (costoro percepivano con fastidio non solo il sostegno pubblico fornito alla grande industria dai governi di ogni colore, ma più ancora il rispetto mai venuto meno fra i protagonisti novecenteschi della lotta di classe) determini tanta miopia: sembrano quasi accontentarsi di interrompere le erogazioni, le rottamazioni, le agevolazioni fiscali. Magari illudendosi di poterle trasferire in favore di imprese più piccole e considerate loro più vicine. Mentre l’inverno 2010 ci trasmette un messaggio preoccupante di ben altra rilevanza: l’Italia si configura territorio sempre meno attrattivo per investimenti industriali stranieri. Far base qui, in un paese depresso da decenni di bassa crescita con handicap crescenti nella ricerca, nelle infrastrutture e nei servizi, conviene meno di prima.
Sergio Marchionne, che impersona al più alto livello la figura del manager apolide, proteso a servire l’interesse aziendale con la sua visione cosmopolita dei mercati, snobbando la politica nostrana e i richiami demagogici all’italianità, non ha certo bisogno dell’appoggio di un ministro o di un banchiere della nostra provincia per tutelare una carriera destinata a proseguire oltreoceano.

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