Politica privata e affari istituzionali

martedì, 21 giugno 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Nella frantumazione in corso degli equilibri di potere del centrodestra italiano, ben più della commediola leghista sui ministeri da trasferire a Monza, conta il venir meno della sempiterna trinità del sottogoverno romano: Gianni Letta, Cesare Geronzi, Luigi Bisignani.
Passati indenni dall’andreottismo al berlusconismo, cioè attraverso stratificazioni geologiche diverse di un establishment nel quale ci si riconosce annusandosi. Dove una mano lava l’altra, e pure con gli avversari se possibile ci si accorda nella mungitura, in base al principio ecumenico “ce n’è per tutti”, con un occhio di riguardo al Vaticano ma anche ai banchieri massoni, sicchè il parastato delle aziende pubbliche diventa sinonimo di paraculaggine: “ Sono una persona gentile, ti ho fatto avere la sponsorizzazione, un domani potresti aver bisogno, e poi fa sempre piacere avere dei segretucci in comune”.
Il primo a cadere –e davvero non se l’aspettava- è stato Cesare Geronzi, estromesso dalla presidenza delle Generali all’insaputa di Berlusconi, prima ancora di conoscere la sentenza sul crac Cirio in cui è coinvolto. Più appartata ma non meno influente era la figura di Luigi Bisignani, da cui usavano recarsi in periodica consultazione schiere di manager pubblici che in teoria avrebbero dovuto guardarlo dall’alto in basso. Ponendosi all’incrocio fra Guardia di Finanza e imprenditori, fra il governo e l’Eni, fra i servizi segreti e la cricca degli appalti, Bisignani poteva decidere ogni volta chi favorire nel gioco di guardie e ladri. Lasciando che la sua fama di tenebroso burattinaio, veritiera o esagerata che sia, alimentasse la soggezione di cui godeva presso i carrieristi di ogni risma.
Era Gianni Letta il terminale politico del finanziere Geronzi e del faccendiere Bisignani. Politico? Ho scritto politico, solo perché Letta staziona in pianta stabile nel palazzo del governo? Eppure lui preferisce definirsi un tecnico, prima al servizio dell’azienda Fininvest-Mediaset, poi al fianco del Berlusconi primo ministro; ma senza mai “abbassarsi” a una candidatura elettorale che quand’anche trionfale ne appannerebbe la neutralità. Il Gianni Letta che a tempo perso, nei brevi periodi dell’opposizione, faceva il consulente della Goldman Sachs e del Vaticano (cioè del diavolo e dell’acqua santa), non ha mai avuto bisogno di sporcarsi le mani nella gestione degli intrighi di palazzo. Gli attestati di stima e solidarietà che gli piovono addosso da quando l’inchiesta di Napoli lo descrive come beneficiario privilegiato del lobbismo di Bisignani, testimoniano il ruolo di mediazione creativa in cui è specializzato. Letta smussa gli angoli, trattiene il Berlusconi furioso, privatizza le relazioni politiche e istituzionalizza gli affari. Lasciando che i risvolti meno estetici di questo mestiere venissero assolti dalla sua fedele retrovia di veterani.
Il mito coltivato sapientemente di Letta indefesso servitore della Repubblica, a prescindere dalla sua biografia professionale tutt’altro che neutra, difficilmente sopravviverà all’inchiesta P4. Non perché il sottosegretario più influente d’Italia corra il rischio di incriminazioni gravi, ma perché con Geronzi e Bisignani viene meno l’idea stessa di una camera di compensazione del potere trasversale così come lui l’aveva ereditata fin dai tempi di Andreotti e dei fondi neri Iri.
La magistratura in questo caso ha ratificato un passaggio d’epoca. Il vizio italiano dell’economia di relazione, e della politica sottomessa all’affarismo, deve fare i conti con l’impresentabilità dei suoi protagonisti che ormai neanche un Gianni Letta riesce a coprire.

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