Il 1 maggio della globalizzazione

venerdì, 1 maggio 2009

Non avrei mai pensato che protagonista della festa dei lavoratori, quest’anno, divenisse un manager dallo stipendio 500 volte più alto del loro, cioè Sergio Marchionne, ad Fiat. Ma è significativo: la globalizzazione è sempre bene accetta quando entri nel giro vincente, e l’accordo con la Chrysler colloca la Fiat tra i vincitori della brutale selezione darwiniana cui è sottoposta oggi l’industria automobilistica mondiale. Questo è un bene per l’Italia? Non c’è dubbio che sì, a prescindere dagli eccessi di fanfare suonate da una stampa che avrebbe detto bene anche della scelta contraria.
Forse però all’esultanza dovremmo accompagnare il riconoscimento di alcune verità più scomode:
1) l’esportazione del “modello Fiat”, cioè dell’auto utilitaria, negli Usa, non comporta in alcun modo un rafforzamento del potenziale produttivo degli stabilimenti italiani. I veicoli saranno prodotti oltreoceano. Dunque la Fiat globalizzata tutelerà i livelli occupazionali italiani solo in corrispondenza con proporzionali livelli di vendite in quest’area del mondo. E’ ogico che sia così. E del resto il mancato accordo con un partner americano semmai avrebbe ravvicinato la chiusura di stabilimenti italiani.
2) da domani dobbiamo abituarci all’idea che la “testa” della Fiat si sposti da Torino a Detroit. Dubito che fra le doti di Marchionne vi sia anche l’ubiquità, e dunque immagino che la ristrutturazione Chrysler divenga per lui una priorità assoluta nei prossimi anni. Il talento italiano viene esportato negli Usa, ottima notizia, ma l’Italia dovrà abituarsi a essere una periferia della nuova Fiat-Chrysler.
3) sarà gustoso vedere i manager torinesi e la famiglia Agnelli alle prese con un azionista di maggioranza che si chiama sindacato. Oltretutto un sindacato Usa e canadese che ha già sacrificato moltissimo il reddito dei lavoratori pur di salvare l’impresa, dunque intenzionato ad avere voce in capitolo, unitamente al governo americano. Non dico che la Fiat tornerà ai consigli di gestione spazzati via da Valletta nell’immediato dopoguerra, ma dovrà riabituarsi a una dose di “socialismo” notevole. Tanto più che i sindacati italiani, se non sono fessi, coglieranno al volo questa occasione per ritrovare un ruolo incisivo.

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