Così “Il Foglio” diffama il popolo

mercoledì, 20 maggio 2009

Tracciando di me un ritratto detestabile, che il suo direttore sa essere ingiusto e non veritiero, oggi “Il Foglio” eleva a fascinoso portavoce del popolo niente meno che il leghista rinviato a giudizio per razzismo. Di lui si narra una compiacente storia familiare, ma soprattutto si enfatizza (con uso smodato della parola “gente”) la quotidiana frequentazione degli umili e dei semplici. Le persone autentiche, cioe’, colpevolmente disdegnate dal mio mondo borghese, lontano com’e’ ormai dal sentire del popolo.
Al “Foglio piacciono la caricatura, i ritratti deformati per confermare il luogo comune della sinistra snob. Poco importa che sia diffamatorio nei confronti del popolo (milanese e italiano) attribuirgli tal quali gli umori belluini trasmessi quotidianamente per radio dal buon razzista. E ancor meno importa che gia’ troppe volte, incitati dalle parole violente, degli energumeni siano passati alle vie di fatto. Anch’io ho tra i miei libri preferiti “Il viaggio al termine della notte” di Céline, ma non per questo mi adeguo alla bugia -questa si’ da intellettuali sopraccio’- che il popolo sia tutto viscere e malumore, da assecondare o contenere con pelosa simpatia. Non mi lascio incantare da chi ostenta una frequentazione del popolo piu’ assidua della mia. E resto convinto della necessita’ che il linguaggio dell’odio razziale sia proibito ai mezzi di comunicazione di massa. Come prevede la legge.
Qui di seguito vi propongo l’articolo di Marianna Rizzini uscito sul “Foglio”.

C’è un processo in cui si deciderà se esista, oggi, un modo proibito
di parlare di immigrazione, xenofobia, sicurezza. Un processo per
diffamazione a mezzo stampa aggravata dalla presunta istigazione
all’odio razziale nei confronti della comunità rom. Attorno a questo
processo c’è una storia che parla di due uomini. L’uomo Rispettabile
si chiama Gad Lerner, il giornalista democratico ascoltato, citato e
stimato da migliaia di lettori, colleghi e telespettatori,
solitamente restio, dice, a querelare per reati d’opinione. L’uomo di
“Pinocchio” e “Milano, Italia”, la firma di Repubblica, l’ex
vicedirettore della Stampa ed ex direttore del Tg1, l’ex giornalista
dell’Espresso, del Manifesto e molti anni prima di Lotta continua, lo
scrittore di un pamphlet sul meticciato socio-culturale, il candidato
alle primarie milanesi del Pd con cui amavano confrontarsi il
banchiere Alessandro Profumo e sua moglie, la bindiana Sabina Ratti,
manager Eni. Il Rispettabile, cioè Gad, è il conduttore tv più
apprezzato nel giro Brera-Corriere della Sera (dove le asprezze di
Michele Santoro paiono, sinceramente, troppo). E’ il punto di
riferimento della Milano che va volentieri in bicicletta come Marco
Tronchetti Provera, e si scopre volentieri ecologista come Milly
Moratti, e va volentieri alla Fiera dei fiori ai Giardini pubblici a
incontrare, con sereno sorriso bipartisan, Afef e Daniela Santanchè,
e va al girotondo e al teatro e al cinema e alla Scala e a bere buon
vino senza sfarzi ma in assoluta raffinatezza. Gad è il pensiero
rispettabile della Milano rispettabile che mette al balcone la
bandiera della pace ma discute con civiltà di guerre di civiltà e non
odia nessuno – neppure George Bush, neppure Silvio Berlusconi – e
porta belle collane etniche su tessuti discreti ma pregiati, e
rispetta e pretende rispetto ma non alza mai la voce. Una Milano che
abita, nascosta, in palazzi antichi con atrio spazioso e bel cortile
insospettabile, e d’estate va in India, Indonesia e Tanzania con
enorme rispetto per gli abitanti, gli usi e i costumi. Una Milano che
sta dalla parte giusta e ha idee giuste, ragionevoli, pulite,
moderate, ragionate, accettate e democraticamente accettabili in
società. L’uomo rispettabile – Gad – è un ex apolide nato a Tripoli
da famiglia ebraica, stabilitasi in Palestina prima della nascita di
Israele. E’, come ama scrivere di sé, un “meticcio, cosmopolita,
bastardo e infedele” – perché è nel sentirsi “bastardo” che nasce
l’esercizio e la promozione della tolleranza. Gad il rispettabile
oggi è preoccupato. Molto preoccupato. Sente serpeggiare un sussurro
xenofobo anzi un bercio anzi un insulto anzi un insieme di insulti
che gli ricordano un brutto passato: non solo il preludio
dell’Olocausto, ma anche il preludio agli anni di piombo, dice. Si
preoccupa, Gad, e teme che “dalle parole si passi ai fatti”.
Le parole sono quelle dette, in un giorno del settembre 2007,
dall’altro uomo coinvolto nel processo, un Impresentabile nel mondo
dei Rispettabili. L’Impresentabile si chiama Leo Siegel, conduttore
di Radio Padania, giornalista e allenatore di calcio e hockey, più
volte candidato ed eletto per la Lega alle amministrative. Un reduce
da un altro passato, da un’altra realtà, da una catacomba che sulle
mappe del mondo rispettabile non esiste. Uno che è sempre stato dalla
parte che ai rispettabili e a chi si sente sinceramente democratico
appariva e appare sbagliata – ineducata, pericolosa, diversa,
sgradevole: nell’Msi negli anni Settanta, nella pancia della Lega oggi.
L’Impresentabile dice cose che ai Rispettabili, e in generale a chi
si sente sinceramente democratico, appaiono indicibili,
inascoltabili, irricevibili. L’Impresentabile parla con (e come) la
gente che a Eugenio Scalfari sembra un’invenzione retorica: “Bossi ha
detto: io parlo con la gente e la gente vuole questo… ma si vorrebbe
sapere qual è la gente con la quale parla il leader della Lega”, ha
scritto il fondatore di Repubblica domenica scorsa.
All’epoca dei fatti in esame nel processo, Leo Siegel conduceva un
programma chiamato “Il Ribelle”, un filo diretto a Radio Padania
Libera. Tuttora Leo Siegel conduce fili diretti, oltre ad allenare la
nazionale padana, motivo per cui alla Padania e a Radio Padania i
ragazzi giovani – che sembrano non curarsi, nel bene e nel male, del
processo per istigazione all’odio razziale in cui è coinvolto il loro
beniamino – gli danno pacche sulla spalla e dicono “forza grande Leo”
quando Siegel, con i capelli bianchi squadrati sul volto senza
sorriso, si trascina, con un’andatura che tradisce gli acciacchi
della lunga carriera sportiva, lungo i corridoi dipinti di verde
della radio – se non fosse un Impresentabile nel mondo Rispettabile
potrebbe sembrare un ex attore di film d’estetica decandente. O forse
il volto cupo e l’espressione ripiegata e dolente sono un pegno
pagato all’essere stato dalla parte in cui non si doveva stare negli
anni Settanta. All’estrema destra. Segretario di sezione missina. “Ho
visto molti funerali”, dice Siegel – che nel 1975 scrisse sul Candido
un pezzo per la morte di Sergio Ramelli, lo studente di estrema
destra sprangato da un gruppo di studenti legati ad Autonomia
operaia. “Molti funerali” per Siegel significa anche Giorgio
Almirante e l’anarchico Valpreda, che Siegel seppe “essersi
avvicinato, per alcuni aspetti, al pensiero leghista poco prima di
morire”. “Ho visto molti funerali” è una frase che Siegel dice in
prima persona, mentre spesso parla in terza persona come a voler
guardare da fuori, e con fatica, se stesso – Leo Siegel ha fatto
questo, Leo Siegel ha detto questo, dice Siegel persino quando
racconta di suo figlio in America e del primo volo per andare a
trovarlo, durante il quale Siegel ha visto “Quo Vadis” con
sottotitoli in tedesco e ha riempito l’“assurdo questionario in cui
ti chiedono se ti droghi o sei terrorista”. Parla spesso in terza
persona, Siegel, anche quando racconta dei suoi due matrimoni – con
la prima moglie è “rimasto amico”, con la seconda divide una casetta
in Svizzera ma a volte si chiede: “Avrò fatto soffrire qualcuno, avrò
fatto soffrire questa donna?”, rimorso di coscienza che non gli
viene, dice, quando pensa alle parole dette in radio, quelle per cui
è accusato di razzismo e quelle dette “senza limare gli aggettivi
come si fa con la minuta di un pezzo”. Le parole sono: comunità rom
“banda di ladri, mascalzoni, delinquenti, farabutti che ci
intossicano dalla mattina alla sera”, Lerner “nasone”, un “nasone”
che lui, Siegel, fosse stato “uno che frequenta la Sinagoga” sarebbe
andato a prendere “per il collo ma veramente, non in senso figurato”.
Motivo del “prendere per il collo”: “Ma tu mi puoi mettere sullo
stesso piano l’Olocausto con questa banda di gente che va a rubare?”,
frase detta a proposito dell’accostamento fatto da Lerner, in una
trasmissione dell’Infedele del 2007, “tra il dramma del popolo
ebraico con quello dei rom”. E se uno chiede a Siegel: “Scusi ma lei
parla di Olocausto e poi chiama Lerner ‘nasone’, epiteto con cui gli
antisemiti offendevano gli appartenenti alla comunità ebraica?”,
Siegel risponde che per lui “Nasone significa l’uomo di ‘Pinocchio’,
il conduttore diventato famoso con la trasmissione ‘Pinocchio’, è da
allora che lo chiamo così”.
Se credergli o meno lo deciderà un giudice, a Milano. Siegel però non
ammetterà “colpevolezze che non ha”, dice, “non l’ho fatto e avrei
potuto, in quel modo, cioè ammettendo intenzioni che non avevo,
cavarmi d’impaccio”. Dice che risponderà “delle porcate fatte
all’Inferno, come tutti”. Tira fuori la lettera aperta che ha messo
sul suo sito www.leosiegel.it, mandata in febbraio al Corriere della
Sera “e mai pubblicata”, dice. Ma come mai pubblicata?, viene da
chiedere. Guardi che il Corriere ha scritto del suo caso, con firma
illustre, Gian Antonio Stella. Siegel non ha mai trovato però in
pagina la sua lettera, la cui pubblicazione, secondo lui, avrebbe
lenito la sua “ferita” più di qualsiasi intervista. La lettera aperta
dice: “Ci sono ferite morali che lasciano il segno più di quelle
fisiche. Ad esempio l’accusa di razzismo, reato spregevole e, per
quanto mi riguarda, incompatibile con l’educazione ricevuta dai miei
genitori, cristiani praticanti, che con sacrifici mi fecero studiare
all’Istituto Gonzaga dei ‘Fratelli Cristiani’. Anche qui mi
inculcarono i valori di questa fede. Di più, il mio stesso
professionismo sportivo, con la relativa cultura interetnica, è agli
antipodi dell’accusa. Di peccati, in vita mia, ne ho fatti, chiedendo
poi perdono al Padreterno, ma mai quello che si potrebbe evincere
dalla vicenda che mi vede coinvolto, e da voi riportata. Fiducioso
che nelle sedi opportune tutto sarà chiarito, ringrazio per
l’ospitalità”.
Non ha rimorsi, Siegel, su quello che ha detto in radio – e deciderà
un giudice se nel mondo Rispettabile certe cose non si possono dire
(neppure) in radio. Un leghista che vuol restare anonimo, impiegato
in un’amministrazione comunale del nord, dice che “alla radio padana
quel filo diretto è fatto apposta per essere diretto. Forse Lerner ha
notato quella trasmissione perché si è fatto il suo nome, ma gli
ascoltatori dicono quello che pensano al filo diretto da anni, sullo
stesso tema o su argomenti simili. Non sono gli amici di Lerner a
parlare di libertà di parola?”. Lerner però dice che “un’aggressività
così violentemente scagliata contro un gruppo etnico nel suo insieme,
dando per scontato che avesse una tara genetica” l’ha fatto
propendere per una soluzione che gli è odiosa: la denuncia, anche se,
dice, “non voglio vendette né risarcimenti economici, e mi sarei
accontentato di una richiesta di scuse”. Lerner vuole che “venga
riconosciuto un principio: queste parole sono preliminari a fatti di
violenza. Non siamo immunizzati contro l’intolleranza e l’odio. Già
sappiamo, dagli anni Settanta, che parole irresponsabili hanno
concimato la pratica armata. Voglio che sia sancito in tribunale che
c’è un linguaggio proibito”. Siegel, dal canto suo, di fronte
all’accusa di istigazione all’odio razziale si definisce “ghandiano”,
dice che la Lega è “un movimento ghandiano” e che lui sa “che
nell’Olocausto vennero mandati a morire anche dei rom, ma appunto
l’Olocausto, fatto osceno e nefando, non può essere paragonato alla
malfidenza nei confronti di questa gente, malfidenza che cresce in un
clima di insicurezza”.
Per sottolineare l’assenza di rimorso rispetto “a mie parole
ingiustamente accusate di incitare al razzismo”, Siegel ricorre a una
battuta: “Io devo rispondere a due segretari, a Bossi e alla mia
coscienza. Quando sono in pace con loro sono in pace con me stesso”.
Lo dice con il tono con cui racconta di essere stato “un ragazzo che
studiava all’Istituto Gonzaga non per snobismo ma perché i miei, che
nel 1948 votarono Dc, dopo gli anni da sfollati – torinesi nel
Canavese – volevano che andassi in una scuola che avesse i vetri
intatti. Io non mi sono mai sentito borghese. Borghesia per me era
conformismo, non prendere posizione. Io l’ho sempre presa, una
posizione, giusta o sbagliata che potesse apparire”. Siegel, da
ragazzo, nel 1956, prendeva posizione “scendendo in piazza contro
l’Unione sovietica per la libertà dell’Ungheria”. Anni prima, ancora
mezzo bambino, era però sceso in piazza per “Trieste italiana”. “Per
me la libertà in quegli anni, come poi negli anni Settanta, si
coniugava con la destra”, dice. Sfollati i Siegel lo erano, come
tanti torinesi, per la guerra. I nonni Siegel, cognome ebraico in
famiglia cattolica, erano in Germania. Siegel, è stato detto, è ebreo
da parte di padre e non di madre, quindi non è ebreo. Siegel dice di
essere cresciuto in una famiglia cattolica e dice che non sa che cosa
sia successo – “i nonni potrebbero essere pure morti in un incidente
stradale” – e comunque non vuole dire nulla perché ora c’è il
processo e “sembrerebbe che io tiri l’acqua al mio mulino”. Come
dire: uno che ha i nonni di origine ebraica non può essere razzista.
Siegel insiste molto sul fatto che per lui il “razzismo” è
“Olocausto, apartheid sudafricano, neri fatti schiavi e frustati
nelle piantagioni, indiani d’America massacrati”. Dice che è vero che
il giorno incriminato, in radio, ha detto, parlando dei rom, “banda
di ladri, mascalzoni, delinquenti, farabutti”. Ma che non si può
“paragonare L’Olocausto a problemi di convivenza che molti nel paese
non vogliono guardare in faccia. Io ci sto, ai gazebo, al quartiere
Ortica di Milano, di fronte alla gente, ai pensionati, alle
casalinghe, agli operai. Gente che prima votava a sinistra e ora mi
dice ‘meno male che ci siete voi’. Gente che magari ha due figli
disoccupati e però sa che gli imprenditori preferiscono prendere in
nero gli immigrati perché li pagano meno, gente che ora viene a
firmare petizioni con la fotocopia del documento perché è stata
scippata due volte. Spesso da immigrati. Ma dirlo non è razzismo.
Sono fatti. E se è vero che le parole possono eccitare gli animi, io
non me la sento di fare la verginella e chiudere gli occhi. Possibile
che se dico a un bergamasco mascalzone è un insulto e se lo dico a un
rom è razzismo?”. Siegel si sente, oltreché ghandiano,
“rivoluzionario”: “Noi vogliamo fare la rivoluzione con la forza
delle idee, e la rivoluzione, si sa, non la fa chi ha la pancia
piena. Chi sta bene non vuole cambiare nulla. Ripeto: dirlo non è
razzismo, sono fatti. Così facendo, a forza di chiamare razzismo il
mio dire ‘mascalzoni’, si rischia di banalizzare. Ci sarà un effetto
al lupo al lupo quando e se il rischio dovesse essere reale”.
Un fatto che mette d’accordo Siegel e Lerner è che quando un
ascoltatore facinoroso, nel giorno incriminato, il 27 settembre del
2007, ha detto, all’indirizzo dei rom, “razza da sterminare, ci
vorrebbe un uomo con i baffetti”, Siegel l’ha fermato: “No, credo che
oggi ci possano essere metodi un pochino più democratici e civili… sa
noi siamo ghandiani e cerchiamo di fare altri percorsi che non
quelli”, ha detto. Lerner, interpellato in proposito, riconosce che
in quel punto della trasmissione Siegel ha cercato di “contenere”, ma
ribadisce che è il tenore di tutto quello che Siegel ha detto a
costituire “un manifesto d’odio razziale preliminare a atti di
violenza”. Lerner aveva portato la trascrizione della trasmissione al
ministro Maroni, durante un convegno sulle leggi razziali organizzato
dalla comunità ebraica. Maroni, inizialmente, come ricorda Gian
Antonio Stella sul Corriere della Sera, disse di volersi costituire
parte civile contro Siegel. Poi non l’ha fatto. Lerner racconta di
aver ricevuto tempo fa una telefonata privata dal ministro in cui il
ministro adduceva motivazioni tecniche riconducibili a un no
dell’Avvocatura dello stato. “Ma avrebbe potuto fare un gesto
simbolico”, dice Gad.
“Alla radio chiama gente di tutti i tipi”, dice Siegel riferendosi
agli ascoltatori del suo filo diretto. “Solo che in Italia ci sono
poche radio senza filtri, noi e Radio Radicale, e non è un caso che
Marco Pannella sia venuto, dopo la prima Pontida, unico, a dialogare
con la Lega, acclamato con una standing ovation perché nessuno allora
voleva parlare con un movimento fuori dall’arco costituzionale”.
Siegel non è neppure una versione padana di Rush Limbaugh, il
conduttore radiofonico americano ultraconservatore che sparò
nell’etere una canzone dal titolo “Magic negro” contro Obama.
Limbaugh, ascoltato da decine di milioni di ascoltatori, è comunque
in qualche modo establishment. Siegel no. L’ex missino Siegel si
avvicinò alla Lega quando vide “quei tavolacci, quelle persone non
impalcate, come si dice qui al nord, che dicevano cose vere, cose
anche brutte ma che non sentivo in bocca a nessuno dei politici
marmittoni. Per me, dopo anni di lontananza dalla politica, fu
un’altra scelta di libertà”. Dopo gli anni di piombo Siegel si occupò
di sport e basta. Unico ricordo positivo di vita pubblica: il sindaco
Carlo Tognoli, socialista, che gli dà un pubblico riconoscimento per
la sua attività di volontariato (“e poi sono stato direttore della
Tazzinetta benefica”, dice, come a voler lavare con questo l’accusa
di razzismo: “Ai poveri non si guarda in faccia. Ti pare che io do da
mangiare a un povero e guardo il colore della pelle?”).
I fatti sono l’ossessione di Siegel. Li elenca: campionati vinti,
elezioni vinte. Sono fatti appesi, sotto forma di manifesti, alle
pareti verdi della sede della Padania e di Radio Padania, dove il
sabato Leo Siegel passa a salutare direttore, colleghi e
collaboratori, nei dedali di un palazzetto lontano dal centro di
Milano, immerso nel nitore dei villini a schiera, un nitore inadatto
all’immagine che ha “l’impresentabile” base leghista nel mondo
rispettabile, quello che con Eugenio Scalfari si chiede “chi sarà la
gente con cui parla Bossi?”. Ma il giornale e la radio non sono
“base”, anche se per lavoro ascoltano la base. I ragazzi del
giornale, di fronte a Siegel, ricordano i momenti di gloria – la
nazionale padana ha avuto un risultato importante in Finlandia.
Peccato per la troppa luce da notte bianca nordica e i troppi
moscerini e le troppe paludi di erba e ghiaccio appena sciolto.
Accanto alla scrivania di Leo Siegel si aggira una signora d’età
indefinibile e aspetto da zia inglese al tè delle cinque. E’ una
collaboratrice della radio esperta di musica classica, candidata come
altri collaboratori alle amministrative con la Lega. Ha i santini
elettorali in borsa, prende la campagna con filosofia ma non è
fiduciosa per via dell’alto numero di candidati leghisti nella sua
zona: chiedo il voto e le persone mi dicono che si candida anche il
loro amico e il loro parente, dice rivolta a Siegel, sospirando e
lasciando squillare due cellulari.
Fatto sta che ora un capriccio del caso o della storia mette di
fronte in tribunale, oltreché due visioni opposte di chi è razzista e
di chi non lo è, di chi istiga e di chi non istiga, due uomini con
nome e cognome simile per assonanza e apparente lontanissima
provenienza: Leo e Gad, Siegel e Lerner.
Il 27 settembre del 2007, giorno incriminato, è la mattina successiva
a una puntata dell’“Infedele” di Gad Lerner sui rom. E’ un periodo in
cui si parla molto di rom: c’è un fatto orribile, dei bambini rom
arsi vivi in una baracca vicino a Livorno, e ci sono delle signore
che, dice un ascoltatore a Siegel, al funerale gridano, all’indirizzo
dei genitori dei bambini, “maledetti”, come a voler dire: siete voi i
veri colpevoli, voi che li avete lasciati soli per andare “a rubare”.
Sono giorni di rapine e stupri nelle ville di campagna, di
amministrazioni comunali – anche di centrosinistra – che a Firenze e
a Bologna lanciano l’allarme e spaccano giunte per via dell’emergenza
sicurezza (e dei provvedimenti che vorrebbero prendere o hanno preso
per risolvere il problema degli insediamenti abusivi e degli eserciti
di lavavetri).
Siegel – come si legge dalla trascrizione agli atti del processo (la
stessa leggibile sul sito di Lerner), apre il programma radiofonico
con una “premessa”: “Premesso che questa trasmissione e questi spazi
sono fatti apposta per dare sfogo alle vostre legittime istanze, ai
vostri risentimenti… una cosa la voglio dire prima di attivare le
linee. Io non so se ieri sera avete assistito a quella oscenità
condotta da Gad Lerner che aveva per tema la beatificazione di una
banda di ladri cioè i nomadi o i rom, chiamateli voi come volete
chiamarli. E prego che nessuno venga a dire ‘ma ladri come? Ma lei
come si permette?’ Ladri sì perché chiunque non ha un lavoro e campa,
delle due l’una: o ruba oppure compie i miracoli nottetempo, gli
danno un panino lo moltiplica, diventan cinquanta, cento oppure ci
spieghino loro come fa a campare uno che non lavora. Va bene che ci
sono i don Colmegna in giro che fanno di tutto di più però se è vero
che sono centocinquantamila o giù di lì da queste parti eh, beh,
centocinquantamila che vivono con la sussistenza dei vari don
Colmegna… che poi don Colmegna non è che sia un benestante, don
Colmegna cucca i soldi delle istituzioni e dei benefattori cioè i
soldi nostri che poi non sono i benefattori xy, nome e cognome, no,
sono i vari enti che campano con i sussidi dello stato, delle
regioni, delle province e dei comuni…”. Dopo la premessa, e prima di
prendere le telefonate, Siegel dice: “Il problema è un altro, e cioè
io vedo mettere in croce chi? L’assessore di Firenze che pretende di
coniugare l’amministrazione con la le-ga-li-tà !… la punta di
diamante di ieri è stata quando eh… il Gad Lerner eh.… così,
veramente col cuore in mano ehm… la coscienza da un’altra parte però
lasciata fuori, ha detto: ‘Va bene, voi togliete gli accattoni dai
semafori’, togliete i vùlavà da semafori, va bene, fa: ‘Ma vi
preoccupate?, ma vi siete preoccupati di quale può essere la strada
del recupero di queste persone quando non avranno più la possibilità
di lavare i vetri ai semafori?’… Cioè, siamo arrivati a questo, ma io
fossi stato in studio, io saltavo addosso a Gad Lerner lo pigliavo
per il collo, in senso figurato, e gli chiedevo: ‘Senti un po’,
nasone ma ti sei mai chiesto per quale motivo si deve preoccupare
un’amministrazione del recupero dei vulavà di gente irregolare di
gente che campa di espedienti e non si deve preoccupare allora in
egual misura o ancor con maggior misura del dramma del pensionato che
non campa fino a fine mese? Oppure di quello che viene licenziato e
perde il posto di lavoro?’”. Da questa miccia è disceso il resto:
un’altra accusa di nasone, un altro “banda di ladri ai rom”, la non
accettazione dell’accostamento rom-ebrei. E vari ascoltatori:
opinioni non infiocchettate, magari rozze, magari repellenti, magari
da bar o peggio, magari inaccettabili, se si vuole. Sicuramente poco
udite e non udibili nel mondo dei rispettabili. Siegel oggi dice: “Il
problema non si risolve con la censura, meglio che la gente parli
piuttosto che meni le mani”. Lerner la vede esattamente al contrario:
quello che dice Siegel può portare la gente a menare le mani. In
attesa che un giudice decida, Leo Siegel continua “a parlare con la
gente”, dice. Gente di periferia, di provincia. Gente al mercato,
gente che prende l’autobus. Gente che, piaccia o non piaccia, esiste,
parla, vota, si sposa, si lamenta, generalizza, sbraita, ha paura
(paura fondata e non fondata). Gente che al mondo Rispettabile forse
non è mai comparsa davanti, se non come eco visiva di un servizio
giornalistico da Pontida o da una fabbrica un tempo “rossa”. Gente
che può apparire egoista, urlante, preda di istinti belluini
scomposti. Gente in difficoltà. Gente sparita dall’elettorato di
centrosinistra. Gente che fa pensare “chi sono questi?” a uno che
vive nel mondo democratico e Rispettabile – non è un bell’istinto, ma
chi fa parte del mondo pulito e senza paure e senza campi nomadi
sotto casa vorrebbe lì per lì escludere dalla vista e dal campo
uditivo chi parla come Siegel e i suoi ascoltatori, e magari trattare
i concittadini che dicono ai rom “banda di ladri” con guanti di
lattice mentali, speculari a quelli che Francesco Merlo, in un pezzo
su Repubblica, vedeva, al contrario, avvolgere la pelle (e la mente)
di chi non vuole farsi arrivare come un pugno in faccia l’immagine
degli immigrati piangenti e respinti in Libia, toccati da guardie
italiane “con mani schifate e dunque inguantate”.
Il giudice dirà se ci sono gli estremi dell’istigazione all’odio
razziale nel caso Siegel. Non dirà se il problema è Leo Siegel oppure
tutte le persone, in blocco, che, per quanto sgradevoli possano
essere le loro opinioni, dal mondo Rispettabile non si sentono
rappresentate. Non dirà neppure, il giudice, che cosa il mondo
Rispettabile dovrebbe fare quando incrocia gli Impresentabili – fuori
dal tribunale – se vuole che gli Impresentabili smettano di essere,
sentirsi o apparire tali.
Marianna Rizzini

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