La speranza di Beirut

martedì, 9 giugno 2009

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
In Libano ha vinto Obama. Senza il suo impegno diretto, culminato nel bellissimo discorso all’islam pronunciato giovedì scorso al Cairo, difficilmente nel paese dei cedri l’elettorato si sarebbe pronunciato così nettamente su posizioni filo-occidentali, ridimensionando il peso politico di Hezbollah e del loro alleato cristiano Michel Aoun.
Il piccolo paese arabo che contiene al suo interno le contraddizioni più esplosive del Medio Oriente –la comunità sciita legata all’Iran, le aspirazioni egemoniche siriane, la rabbia dei campi palestinesi, un boom economico che enfatizza le disuguaglianze socio-culturali- offre così un’apertura di credito alla nuova politica americana. E lo fa in un insolito clima di correttezza istituzionale, con gli sconfitti che accettano il responso delle urne mentre i vincitori, saggiamente, gli riaprono le porte di un governo di unità nazionale.
Da abili levantini, i politici libanesi hanno intuito come nella fase che si apre le debolezze strutturali del loro mosaico etnico-religioso potrebbero tramutarsi in motivi di forza. Beirut diviene la sede naturale, anzi, il laboratorio del negoziato mediorientale in cui Obama ha deciso di coinvolgere l’Iran e la Siria, purchè non ne derivi una minaccia alla sicurezza d’Israele. Qui Teheran e Damasco sono già di casa.
Il voto conferma che la società libanese è molto più evoluta e aperta di qualsiasi altro paese arabo. I quindici anni della sanguinosa guerra civile (1975-90) hanno eretto un tabù rispettato finora da entrambi gli schieramenti. Perfino l’enigmatico, abilissimo capo sciita Nasrallah, non a caso disponibile al passo indietro, ha sempre predicato sotto forma di fatwa religiosa l’inviolabilità della natura plurale della nazione. Gli basta d’imporre la shar’ia nelle zone abitate dalla sua gente; ma soprattutto di conservare mano libera sulla sua temibile milizia, al di fuori di ogni controllo dello Stato libanese. Un modo per avvertire Israele: se vuoi la pace sul tuo confine settentrionale, dovrai fare i conti con Teheran.
La coalizione “14 marzo” che esce vittoriosa dalle urne, a sua volta, non è un esempio specchiato di politica democratica. Vi convivono gli interessi finanziari sauditi di Saad Hariri con ciò che resta dei signori della guerra maroniti e drusi. La sapienza con cui il governatore della Banca centrale ha saputo attrarre capitali in controtendenza con la crisi mondiale, e la rispettabilità del generale Michel Sleiman, divenuto presidente della Repubblica, hanno contribuito a rinnovare le speranze di una nazione abituata a risorgere continuamente dalle macerie.
Ma i veri protagonisti morali della vittoria di ieri, non c’è dubbio, restano i giovani cosmopoliti che reagirono coraggiosamente all’attentato contro Rafik Hariri nel 2005. I loro leader hanno pagato con la vita tale rivolta contro l’oscurantismo e la prepotenza siriana.
Questa nuova generazione oggi trova finalmente alla Casa Bianca un interlocutore capace di trasformare in offensiva diplomatica la sua energia intellettuale. E lo ricambiano con il primo concreto successo politico di tale offensiva. Anche se gli esiti finali rimangono più che mai incerti.
Temeraria è infatti la scommessa di Obama: conquistare la fiducia dell’intellighenzia araba e avviare il negoziato con i nemici storici d’Israele, evitando però che ne consegua irrimediabile diffidenza di una Gerusalemme rimasta incredula delle sue virtù persuasive.
Sapremo nei giorni prossimi se Netanyahu –che ha preannunciato un importante discorso programmatico- si metterà di traverso al tentativo Usa o gli concederà (malvolentieri) credito. Il voto libanese dovrebbe convincerlo che la radicalizzazione del Medio Oriente non è un destino inevitabile.
Da tre anni, contro le aspettative dei profeti di sventura, sul confine israelo-libanese tacciono le armi. Non è un miracolo. E’ il frutto del lavoro silenzioso ma abile, troppo spesso ingiustamente denigrato, del contingente Unifil dell’Onu guidato dal nostro generale Claudio Graziano. Bisognerà pur ricordarlo anche a Roma: quella spedizione di pace fu fortemente voluta dal nostro governo nell’estate di guerra 2006, convincendo partner europei scettici e riottosi. A Beirut lo sanno bene, e ce ne sono grati.

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