Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Siamo alla frutta? Scrivo senza conoscere ancora la reazione delle Borse alle disavventure dell’economia italiana, e soprattutto l’esito delle prossime aste pubbliche dei nostri Titoli di Stato. La rete protettiva dislocata per difenderci dalla speculazione internazionale è ragguardevole. La promuovono il Quirinale e la Banca d’Italia, vi partecipano i leader dell’opposizione, pure i grandi giornali d’opinione suonano la sordina e auspicano uno spirito di responsabilità comune. Berlusconi, dal canto suo, tace; ed è meglio così per il paese.
Può anche darsi, e me lo auguro, che quando leggerete questa rubrica la manovra economica varata per sottrarci all’”effetto Grecia” venga considerata sufficiente a scoraggiare “le locuste”, che poi sarebbero dei normalissimi Fondi d’investimento, dallo scommettere sulla nostra disgrazia. Ma c’è una verità scomoda che gli zelanti (e lodevoli) edificatori dell’argine anticrac conoscono benissimo: non è più vero che la difesa della nostra credibilità nazionale passi attraverso la figura del ministro dell’Economia in carica, cioè Giulio Tremonti.
Tremonti è un uomo screditato. In tempi normali, non dico nel Regno Unito ma perfino in Italia sarebbe già stato costretto a dimettersi. Può far finta di niente solo perché i giornali indipendenti evitano di scriverlo, per paura di figurare corresponsabili di eventi sinistri per tutta la collettività. Le malefatte e l’abuso di potere emersi a carico del suo principale collaboratore, Marco Milanese, arricchitosi grazie a sistematici abusi di potere connessi ai suoi incarichi pubblici, e alla notoria delega concessagli (a ragion veduta, suppongo) dal ministro, ricoprono di fango la credibilità di Giulio Tremonti.
Continuo a domandarmi dove sia andata a nascondersi la sua proverbiale intelligenza. Stiamo parlando di un ricco professionista, il cui studio è fra i più rinomati d’Italia, aduso a staccare parcelle milionarie e a detenere segreti di molti imprenditori privati. Possibile che non gli sia venuto in mente di comprarsi un alloggio a Roma, potendoselo permettere tranquillamente e magari facendo pure un buon investimento? Ma ancora: possibile che in dieci anni di collaborazione, a partire dal 2001, l’arguto ministro dell’Economia non abbia percepito la voracità e la spregiudicatezza dell’uomo che ogni mese versava 8500 euro per tenerselo stretto, vicino pure di notte? Come già constatammo per Berlusconi con le sue signorine, è inevitabile che anche Tremonti si configuri quale figura ormai ricattata o ricattabile, se non altro per le sue gravi omissioni di controllo. Non a caso è stato lui stesso, di fronte ai magistrati, a evocare il “Metodo Boffo” con cui lo tiene nel mirino la stampa di famiglia del premier (ricordo gli attacchi espliciti de “Il Giornale” ma anche una più subdola copertina d’avvertimento di “Panorama”).
Conosco Giulio Tremonti da molti anni e mi sento di escludere si tratti di un idiota. Benché di fronte alle platee leghiste amasse vantarsi di avere poca dimestichezza coi libri, la sua ansia prevalente era quella di ottenere un riconoscimento d’autorevolezza intellettuale nell’accademia e nei circoli della sinistra. Può darsi che in questi giorni di tempesta finanziaria egli s’illuda ancora di risultare indispensabile all’economia italiana che si propose di dominare, procurandole danni evidentissimi, non solo di reputazione. Sbaglierò, ma la mia previsione è che in ogni caso, ben presto, dovrà seguire l’esempio di Claudio Scajola e tornarsene a casa. Per sua fortuna, ha di che pagarsela.